Politica

Renzi al Meeting Cl: i pro e gli anti

Non tutto il discorso di Matteo Renzi ieri al Meeting di Cielle è da buttar via. Intanto non ha fatto il ruffiano, come di solito fanno tutti i politici che vanno lì in passerella a caccia di voti e, appena varcano i cancelli della Fiera di Rimini, si travestono da ciellini, devoti di don Giussani, fan sfegatati della “sussidiarietà” e delle altre fisime della compagnia. Anzi, ha fatto sapere alla folla plaudente di aver poco a che spartire con quel mondo (“abbiamo idee opposte su molte cose”) e di non amare l’applausite che in 25 anni di Meeting ha garantito standing ovation a chiunque – tutti e il contrario di tutti – passasse da quel palco. Ha detto anche cose apprezzabili nei contenuti. Per esempio quando se l’è presa con gli “imprenditori della paura” che soffiano sul fuoco del malcontento da immigrazione per qualche voto in più, e s’è detto disposto anche a perdere voti pur di continuare a “salvare vite” in nome dei valori di “umanità”, che non vanno confusi con il “buonismo”.

Se avesse anche aggiunto come intende affrontare in concreto la piaga della clandestinità (magari con una legge più seria della Bossi-Fini, che penalizza i lavoratori e agevola i criminali) e soprattutto rafforzare le strutture dello Stato (forze dell’ordine in primis) per gestire al meglio un fenomeno di proporzioni bibliche, al di là delle consuete giaculatorie sull’Europa (il miglior modo di buttare la palla in tribuna), sarebbe stato perfetto: ma la perfezione non è di questo mondo, tantomeno di questo governo.

La retorica sull’Italia che ha “ripreso a correre”, ovviamente da quando c’è lui, fa parte del gioco: la propaganda è l’unica tassa che si paga regolarmente in Italia. C’è però un passaggio del discorso di Renzi che in apparenza riguarda il passato e invece investe il futuro: il giudizio sul ventennio 1994-2014, quello dominato da Berlusconi e dal berlusconismo di destra e di sinistra.

Renzi ne parla al passato, come se fosse una parentesi definitivamente chiusa. E questo è il primo errore: B. è – almeno politicamente – un rottame, ma il berlusconismo è vivo e vegeto. Quasi tutte le riforme di Renzi sono copiate pari pari dai programmi di B. e, senza il Patto del Nazareno con B., probabilmente non ne sarebbe passata nemmeno una: né il Jobs Act, né la cosiddetta Buona Scuola, né la nuova legge elettorale per la Camera (Italicum), né la riforma costituzionale del Senato che sta per tornare a Palazzo Madama per la terza delle quattro letture previste.

E senza Verdini e i suoi voltagabbana, il suo governo rischia lo sfratto. Il secondo e più grave errore però è un altro: dire che “la Seconda Repubblica è stata una rissa ideologica permanente che ha impantanato l’Italia in discussioni sterili mentre il mondo correva. Il berlusconismo e per alcuni aspetti l’antiberlusconismo hanno messo il tasto pausa al ventennio italiano, impedendoci di correre”. Eh no. Troppo comodo, troppo furbo, troppo paraculo: berlusconismo e antiberlusconismo sono due cose opposte ed è il momento che il presidente del Consiglio e segretario del Pd dica non solo ai suoi elettori, ma a tutti gli italiani e anche all’Europa, che cosa pensa di Silvio Berlusconi e di ciò che ha fatto in questi vent’anni. La sua opinione sui dirigenti del centrosinistra Renzi l’ha ripetuta in tutte le salse, specie quando voleva prenderne il posto all’insegna della rottamazione (salvo poi riciclare le vecchie muffe, a parte le poche che non sono corse a baciare la sacra pantofola). Ma di B., che ci dice di B.?

Se lo ritiene un normale leader di centrodestra, da giudicare serenamente sul piano storico con i suoi pro e i suoi contro, come Kohl, Chirac, Sarkozy, Thatcher ecc, è un conto. Se invece pensa che sia stato un male per l’Italia, anzi il peggiore dei mali della storia repubblicana, è un altro conto. Che cos’ha da dire Renzi su chi ha cacciato dalla tv pubblica Biagi, Santoro e Luttazzi e con loro pezzi interi di società, di realtà e di verità, ha fatto destituire direttori di giornale a lui sgraditi, ha inquinato la vita pubblica con le sue pratiche corruttive e le sue amicizie piduiste e mafiose, ha spudoratamente favorito gli interessi delle sue aziende a scapito della concorrenza e del pluralismo, ha approvato decine di leggi su misura per i suoi interessi e i suoi processi, ha devastato la giustizia e l’etica pubblica praticando, predicando e santificando l’illegalità di massa, ha screditato la magistratura, la libera stampa, la Consulta e infine la stessa Costituzione, cancellando dal sentire comune l’idea stessa che il potere debba essere controllato e arginato da contropoteri indipendenti, picconando i fondamenti della democrazia liberale e dello Stato di diritto? Se tutto ciò è accaduto, e sventuratamente è accaduto, come può Renzi mettere sullo stesso piano il berlusconismo e il suo contrario, cioè le poche voci che si sono levate nel deserto, anche con qualche rischio personale, per contrastare quello tsunami di merda?

Renzi dovrebbe domandarsi quanto sarebbe durato e fin dove si sarebbe spinto il berlusconismo, se non avesse incontrato ostacoli fuori dal sistema dei partiti, nella società civile. E poi ringraziare chi aveva capito tutto fin dall’inizio e messo in guardia gli italiani, mentre lui sedeva sulle ginocchia di Verdini, o vinceva milioni alla Ruota della Fortuna, o andava in gita premio ad Arcore. Se non vuole ringraziare i vivi, s’inchini almeno a chi non c’è più: Montanelli, Biagi, Bocca, Rinaldi, Sechi, Federico Orlando, Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Tabucchi, Luzi, Scalfaro, Monicelli, Franca Rame. Questi sono i volti dell’antiberlusconismo: il meglio della cultura liberaldemocratica, liberalcattolica, liberalsocialista e progressista, ovviamente estranea alle greppie dei partiti che col berlusconismo hanno sempre banchettato e fatto a mezzo. Equipararla al berlusconismo è come dire che fra il 1943 e il ’45 l’Italia fu paralizzata da una noiosa e sterile rissa ideologica tra i fascisti che volevano trasformare l’Italia in una dependance del Terzo Reich e gli antifascisti che lottavano per farne una democrazia, impedendoci di correre (al passo dell’oca, s’intende).

Si dirà: ma l’antifascismo nel Dopoguerra imbarcò orde di fascisti convertiti in articulo mortis (di Mussolini, però) e diventò per molti una lucrosa professione e un comodo ufficio di collocamento. Verissimo: l’antiberlusconismo, invece, nemmeno quello. Gli antiberlusconiani non hanno tratto alcun vantaggio neppure dopo la caduta di B. Nessuno di essi ha ottenuto incarichi o prebende dai governi succeduti a B. I quali, anzi, han continuato a ingrassare B. e i suoi cari (da Alfano e Verdini, per non parlare della “nuova” Rai), lasciando gli antiberlusconiani là dov’erano confinati: ai margini, nel ghetto, a espiare la grave colpa di aver avuto ragione.

Ps. Dopo l’equazione berlusconismo-antiberlusconismo, Renzi si è prodotto in un’imbarazzante difesa della schiforma del Senato: la boiata che lo trasforma in un dopolavoro per consiglieri regionali, perlopiù inquisiti e dunque immuni, scelti dalle Regioni anziché eletti dai cittadini. “Dicono – ha sproloquiato il premier – che se non c’è l’elezione diretta del Senato è a rischio la democrazia. Ma non è che devi votare tante volte, quello è il Telegatto”. Per la verità, con il combinato disposto Italicum-nuovo Senato, sarà del tutto inutile votare: le elezioni saranno finte per i deputati (per due terzi nominati dai partiti come capilista bloccati) e abolite per i senatori (tutti cooptati dai consigli regionali). E il premier controllerà tutto: Parlamento, governo, Quirinale, Corte costituzionale, Rai e Csm, cioè magistratura, realizzando un sogno (anzi un incubo) che forse nemmeno B. aveva osato accarezzare. Per questo Renzi non può condannare il berlusconismo: non è mica un cannibale.

Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2015