Cultura

Dario Fo: “Oggi c’è meno censura, è sufficiente il ricatto silenzioso”

"Ormai vale il principio: 'ti faccio fare quello che vuoi basta che non tocchi la mia parrocchia'. Un tempo il pubblico era il vero committente dei nostri spettacoli, si discuteva addirittura prima della messa in scena"

di Nanni Delbecchi

Con Dario Fo le pareti non sono mai più di tre. Che lo si ascolti a teatro, lo si veda in Tv o si legga i suoi libri, come il Nuovo manuale minimo dell’attore in uscita domani per Chiarelettere, la quarta parete _ quella che per convenzione separa l’interprete dalla platea _ va subito in frantumi. È l’impressione più forte trasmessa da questo diario in pubblico, un inseguirsi di aneddoti, incontri e riflessioni tecniche durante gli ultimi 25 anni della carriera di Dario Fo e Franca Rame. L’impossibilità di separare vita, teatro e società; il teatro come luogo non fisico ma morale, dove si incontrano l’autobiografia di un paese e il genio di un artista. “Alla fine degli Anni Sessanta, dove finisce il racconto del primo Manuale minimo dell’attore, siamo usciti dal teatro ufficiale, abbiamo buttato all’aria le convenzioni. Franca intuì per prima che dovevamo cambiare pubblico, e per cambiarlo dovevamo cambiare lo spazio dove recitare. Abbiamo rotto i contratti che avevamo con le sale tradizionali e ci siamo messi a cercare le case del popolo, le chiese sconsacrate, i circoli privati. Così è nato Mistero buffo, e il resto è venuto da sé.

L’umore nel Paese era così lontano da quello di oggi che invece di una cronaca sembra di leggere un romanzo inventato di sana pianta.
È verissimo. In quegli anni accadde qualcosa di incredibile, centinaia di migliaia di persone avevano la possibilità di partecipare attivamente, e addirittura potevano proporre e quasi imporre degli spettacoli con temi di denuncia inauditi; il lavoro a domicilio, lo sfruttamento dei minori, la ribellione di alcuni consumatori milanesi raccontata in Non si paga, non si paga!, poi divenuta un caso nazionale. E ovviamente le stragi di Stato, a cui abbiamo dedicato tre spettacoli.

Nel Manuale non si stanca di ripetere quanto era fondamentale il ruolo del pubblico.
Certo. Il pubblico era diventato il vero committente dei nostri spettacoli, il coinvolgimento arrivava addirittura prima della messa in scena, e proseguiva nei dibattiti con gli operai e gli studenti, ma anche nelle battaglie che ci hanno portato più di una volta in tribunale. Erano tempi davvero incredibili anche di scambio culturale. Alla Palazzina Liberty venivano le compagnie di tutta Europa e degli Stati Uniti a portare i loro spettacoli e a riprendere quelli che facevamo noi.

Come si spiega che in Italia il rapporto tra scena e società sia così radicalmente cambiato?
C’è stata una grande dòrmia, come si dice in milanese. Hanno drogato nel sonno una nazione, una specie di anestesia totale, per citare uno spettacolo del vostro direttore. La causa maggiore è proprio la disinformazione, l’accettazione della menzogna e delle verità ufficiali come qualcosa di normale. Come spiegare diversamente l’accettazione di un personaggio come Vincenzo De Luca a governatore della Campania? Trent’anni fa non sarebbe mai accaduto.

Anche la satira, altra linfa vitale del suo teatro, sembra quasi scomparsa, almeno dai media generalisti.
Qui vale il principio del ricatto da parte del potere. Io ti faccio fare quello che vuoi, basta che tu non mi rompi le scatole, e soprattutto che non tocchi la mia parrocchia. Infatti oggi c’è meno censura rispetto al passato, almeno in apparenza.

Nel Manuale si rievoca la famosa purga inflittavi dalla Rai dopo Canzonissima del 1962.
Sì, ma allora i Bernabei della situazione prendevano le forbici e tagliavano: questo sì, quest’altro no, quest’altro cambiatelo. Adesso non c’è più bisogno, il ricatto è implicito. Accomodatevi, ci sono tutti gli spazi che volete, inventatevi quello che volete. Ma se ti azzardi a portare il grottesco sulle cose reali, sei subito fuori.

Un altro spartiacque decisivo del suo teatro è tra il recitare e il rappresentare. Due cose completamente diverse, infatti oggi si recita fin troppo ma si rappresenta poco.
Cose radicalmente diverse, anche dal punto di vista tecnico. Rappresentare significa coinvolgere il pubblico in modo che si senta responsabile di quello che succede, suscitare la sua partecipazione fisica, totale. Recitare è ripetere qualcosa che vola sopra la testa di chi ascolta. Guarda come sono bravo a fare il doppio passo incrociato e a imitare un politico, ma senza esagerare…

Anche i politici sono sempre più attori e hanno imparato a recitare. Ma che attori sono?
Attori mediocri. Dei dilettanti che però hanno una tale disponibilità di spazi da far passare per buona qualunque tiritera. Anche un po’ vigliacchi, perché temono le reazioni del popolo. Meglio andare in televisione, tanto lì recita anche il pubblico.

da Il Fatto Quotidiano del 26 agosto 2015

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