“Chi sta bbono nun crede a l’ammalèto. Chi sta sazio nun crede a l’affamèto”. Matteo Salvatore, invece, dava retta agli uni e agli altri. Perché quella cantata nel brano Sempre poveri era la sua gente. Sono dieci anni che il cantastorie pugliese non c’è più, scomparso il 27 agosto del 2005 dopo 80 primavere vissute tra tormenti e versi indimenticabili. Anche grazie al contributo di artisti come Lucio Dalla, Pino Daniele e Vinicio Capossela che hanno riscoperto la sua sterminata discografia. I suoi album sono a disposizione di tutti e raccontano di una terra, il foggiano e più in generale la campagna del Sud Italia, sfruttata e calpestata.
Matteo Salvatore era nato nel giugno del 1925 a Apricena. Il padre era un facchino e la madre si fingeva mutilata per chiedere l’elemosina, perché i denari delle cave di pietra non avevano ancora raggiunto il paese ai piedi del Gargano né tanto meno le tasche della famiglia. Visse la strada e la fame; fece il garzone per poche lire, zappò la terra e contrabbandò tabacco nel beneventano, prima che un carretto lo portasse nella capitale.
“In tutta la sua vita non si è mai liberato dei traumi di un’infanzia poverissima” racconta Mario Milone, che assieme all’associazione e Laboratorio P.A.C. si occupa di recuperare gli usi e i costumi tradizionali di Apricena e dei paesi vicini. “Un aneddoto racconta l’asprezza di quegli anni: un giorno un riccone locale si rivolse a Matteo, che quasi mai aveva qualcosa da mettere sotto i denti, per convincere il figlio inappetente a mangiare. L’uomo lo invitò a pranzo quasi tutti i giorni, prima di sparire per una settimana. Una domenica lo incontrò fuori da Messa e gli chiese come mai non lo volesse più alla sua tavola. Il signore rispose che non c’era più bisogno, perché suo figlio era guarito. Gesù Cristo mio fallo ammalare un’altra volta, gridò allora in dialetto il giovane Matteo”.
Giunto a Roma Salvatore affinò la sua arte, che aveva le radici nella musica popolare foggiana. Sin da bambino passava ore a ascoltare e cercare di imitare le note dei suonatori di mandolino come Vincenzo Pizzicoli, suo maestro detto u Cechète. Matteo Salvatore viveva in una baracca e cantava nelle osterie, prima che critici musicali e colleghi si accorgessero di lui. Il suo talento colpì Claudio Villa, che lo convinse a cantare in pugliese per tentare di cavalcare il successo di Domenico Modugno. A metà degli anni ’50 era di nuovo a Apricena e, registratore alla mano, tornò a caccia dei vecchi canti del suo popolo, da attualizzare e fare rivivere.
“Agli inizi metteva in fila frasi sgrammaticate e senza filo logico, seppur già infinitamente profonde – prosegue Milone – Con gli anni affinò la sua scrittura, in modo semplice e diretto esternava pensieri rivoluzionari tanto che alcuni paragonarono la sua opera a quella degli autori sovietici. Raccontò ingiustizia e fatica in capolavori come I maccheroni, La ballata del bracciante, Don Nicola si diverte e Il pescivendolo. Il successo arrivò negli anni ’60 con Lu suprastante, la storia di un uomo che, al servizio del padrone della masseria, controlla con piglio duro che i contadini facciano il loro dovere. La differenza tra chi sta sopra e chi sta sotto, che ritorna ancora una volta”.
Concorda con questa lettura Italo Calvino: “Noi le parole di Matteo Salvatore le dobbiamo ancora inventare” disse una volta il grande scrittore. “Ha raccontato la condizione dello sfruttamento più bestiale, è stato il più grande cantore della fame che io abbia mai affrontato – dice Moni Ovadia, che alla figura di Salvatore ha dedicato assieme a H.E.R. lo spettacolo Prapatapumpa, padrone mio ti voglio arricchire – Karl Marx sarebbe impazzito di gioia a ascoltarlo. Lo metto assieme ai più grandi per la sconvolgente qualità musicale delle sue melodie e per la drammaticità dei suoi testi. È stato un bardo straordinario, ha visto con i suoi occhi l’oppressione ottusa e malvagia e ha saputo raccontarla. Questo senza mai rinunciare a indagare l’amore e attraverso il costante ricorso all’ironia, che usava per dissacrare e colpire il potere”.
Un cofanetto, Le quattro stagioni del Gargano, raccoglie i suoi lavori principali e rappresenta ancora oggi il modo migliore per approcciarsi a Matteo Salvatore. I cui tormenti, passato dalla fame alla fama, non erano terminati. Nel 1973 fu accusato di aver ucciso la compagna e corista Adriana Doriani. Dopo quattro anni trascorsi in carcere, appoggiato nella sua battaglia legale da esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo come Renzo Arbore, fu assolto e tornò libero. La vicenda non fu mai del tutto chiarita, lui psicologicamente accusò il colpo. Visse una seconda giovinezza all’alba del nuovo millennio, quando artisti come Lucio Dalla presero a omaggiare la sua opera. Ma il mainstream continuò a evitarlo. Anche a Apricena, dove oggi è sepolto, secondo Milone “nessuno si è mai preso la briga di riconoscere il suo reale valore”.
“Alan Lomax, il più grande antropologo del Novecento, ha scritto un libro intitolato L’anno più felice della mia vita – dice Ovadia – Racconta i dodici mesi trascorsi in Italia, immerso nello studio dell’infinito patrimonio di cultura e tradizioni popolari del nostro Paese. Noi non siamo in grado di valorizzare queste straordinarie risorse e l’angolo in cui Matteo Salvatore è stato a lungo confinato ne è la prova. Se fossimo una nazione autenticamente civile da un punto di vista culturale questo grande artista sarebbe considerato un tesoro nazionale vivente, per usare un’espressione giapponese”. Non fosse altro che per la stupefacente attualità di brani scritti mezzo secolo fa. La fatica e i torti subiti dai personaggi delle sue canzoni come Lu furastiero è oggi quella degli uomini e le donne che raccolgono pomodori per pochi euro all’ora nelle campagne di San Severo e Rignano Garganico, sfiniti dall’avidità dei caporali. “La natura dello sfruttamento non è cambiata di una virgola, è quanto vediamo ogni giorno. Oggi come allora ci sono gli imprenditori e ci sono i padroni, che trovano sempre il modo di guadagnare sulla pelle dei più deboli. Il messaggio di Matteo Salvatore non è destinato a perdere di valore”.