L’anniversario è di quelli destinati a passare sotto silenzio mediatico o quasi: la loro storia non è (più) di moda, non porta soldi, non è riciclabile come evento connesso all’Expo, fa così tanto “sinistra-da-eskimo-old-fashioned” e in quanto tale striderebbe col variopinto storytelling plastificato della “ripresina” autunnale…
Se infatti la scadentissima koinè filorenziana è sempre pronta a schernire alla stregua di reperti fossili tutti coloro che osano dissentire o schierarsi dalla parte dei lavoratori, magari per reclamare elementari diritti civili regrediti ormai al livello di rari privilegi, se un tema delicatissimo e doloroso come l’immigrazione/emigrazione diventa oggi pretesto di retoriche elettorali opposte ed ugualmente superficiali, per quale motivo dovrebbe ancora importarci qualcosa, all’alba del 2015, del calzolaio pugliese Nicola Sacco e del pescivendolo piemontese Bartolomeo Vanzetti, immigrati italiani del Massachussetts, ingiustamente condannati alla sedia elettrica il 23 agosto 1927?
Eppure, i due innocenti uccisi malgrado la precedente confessione dell’effettivo colpevole che li scagionava, bersagli di una vile punizione “esemplare” basata esclusivamente sul pregiudizio suscitato dalla loro origine e dai loro orientamenti politici dissidenti, i due “wops” (storpiatura angloamericana del termine “guappi”), come ignobilmente li menzionava il magistrato della suprema corte che li giudicò, sembrano oggi più vivi che mai.
Perfino ora che le tante celebrità del passato schieratesi all’epoca in loro sostegno –da Einstein a George Bernard Shaw, da Dorothy Parker a Bertrand Russell– non sono più tra noi, la vicenda dei due anarchici italiani è rimasta così profondamente impressa nell’immaginario collettivo che tuttora continuano a svolgersi – com’è appunto avvenuto lo scorso fine settimana sotto il consueto occhio vigile dei social network – commemorazioni e celebrazioni del loro anniversario sia a Boston sia nelle due rispettive città natali di Torremaggiore (FG) e Villafalletto (CN).
E per chi voglia ancora ricordarli e riflettere sulla loro drammatica sorte, un non irrilevante motivo di consolazione consiste nel fatto che non si sia pensato (dopo il tentativo televisivo già effettuato negli anni ’70) di trarne materiale per una di quelle solite atroci fiction Rai in alternativa alle quali esiste invece, per fortuna, l’eccellente film di Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti del 1971) al cui restauro si è provveduto nel 2005. A chiunque sia capitato di immergersi in quella trasposizione cinematografica (successiva ad una precedente versione teatrale di Roli e Vincenzoni) risulterà inevitabile condensare l’intera storia di Nick e Bart –che di per sé sembrerebbe quasi un articolo di costituzione scritto al contrario, tale è la somma di orrende discriminazioni di razza, convinzioni politiche etc. che essa racchiude– in un’unica folgorante immagine, ovvero in quel breve ma leggendario monologo di Vanzetti alias Gian Maria Volonté che, fin dalla prima visione, va ad infilarsi dritto dritto nel tuo archivio personale delle emozioni estetiche indimenticabili. Più che una semplice, per quanto eccelsa, prova attoriale, lo si può considerare quasi una sorta di mini-masterclass di recitazione se è vero che, come ha ricordato lo stesso regista in una recente intervista, la prima ripresa, sebbene già perfetta, dovette essere cestinata poiché uno dei figuranti chiamati ad impersonare le guardie del tribunale, dinanzi alla performance di Volontè era scoppiato a piangere senza ritegno per la commozione.
Sguardo di brace, gestualità trattenuta ma vibrante, sofferenza e disperazione che la dignità stempera in un’eroica consapevolezza, un’iperrealistica cadenza cuneese che non scalfisce minimamente il pathos indignato del suo discorso (corrispondente a quello effettivamente pronunciato all’epoca), il Vanzetti di Volonté ci consegna il ritratto memorabile di un “everyman” che, in virtù della schiena dritta, del cervello pensante e dell’innocenza orgogliosamente ribadita, assurge al rango di icona tragica dei nostri tempi.
“Sto soffrendo e pagando perché sono anarchico […] Perché sono italiano – dichiara Bart – Ma sono così convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto”. Dunque un’irriducibile scintilla di umanità che neppure l’omicidio di stato riuscirà ad estinguere, ovvero un limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare proclamato a gran voce proprio dinanzi ai carnefici: “Noi dobbiamo ringraziarli – aggiunge il condannato – Senza di loro saremmo morti come due poveri sfruttati. Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo, e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati!”. Ciononostante per un semplice riconoscimento ufficiale del letale errore giudiziario bisognerà attendere ben 50 anni e l’iniziativa del governatore Michael Dukakis nel 1977.
Eppure, al di là di questo pur significativo spartiacque, il dramma di Sacco e Vanzetti continua da ben 88 anni ad emozionarci, a coinvolgerci e ad accomunarci non solo per le sue implicazioni giuridico-politiche oggi più che mai attuali ma anche per la tipica irresistibile forza dell’immedesimazione tragica: chi di noi non è mai stato accusato ingiustamente? Quale essere umano, del presente o del passato, non ha mai visto abbattersi su di sé o sui propri simili la scure del sopruso o di piccole o grandi violenze? Detto altrimenti, il meccanismo potente e catartico di questa identificazione si ripete nei secoli e ne possiamo facilmente rintracciare la sintesi nelle parole di un celebre protagonista shakespeariano: Amleto è dalla parte di chi ha subito un torto. Come te.