In una lettera inviata al Fatto Quotidiano, Beppe Grillo scrive che il populismo è “un atteggiamento sostenibile in politica soltanto se l’attore è al governo”. Aggiunge che la “Lega è populista”, mentre definisce M5s “difficilmente catalogabile” come tale. Abbiamo sentito cosa ne pensano il professore di Politica Comparata dell’Università di Bologna Piero Ignazi ed Elisabetta Gualmini, vicepresidente dell’Emilia Romagna e politologa.

“Beppe Grillo deve mettersi d’accordo con se stesso: prima dichiara di essere fieramente populista, di essere vicino al popolo. Lo ha detto nel 2013 partendo dal presupposto che non era né di destra né di sinistra. Poi ha ritrattato, confondendo le categorie”. Elisabetta Gualmini, politologa dell’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo e vice presidente della regione Emilia Romagna, eletta con il Pd, non usa mezzi termini sulla nuova definizione di populismo avanzata da Grillo con una lettera pubblicata ieri dal Fatto Quotidiano.

Professoressa Gualmini, dov’è che sbaglia Grillo secondo lei?
Confonde il populismo con il clientelismo, con l’idea del partito che distribuisce vantaggi selettivi a una specifica categoria, sperando di avere un peso elettorale. Certo, è una pratica diffusa, un fenomeno che non dovrebbe esistere e che si è ripetuto continuamente nella storia del nostro Paese. Ma il voto di scambio non è certo populismo. E cercare di farlo passare come tale è grave. Il populismo ha caratteristiche ben delineate.

Quali?
Prima di tutto non si riferisce a categorie specifiche di cittadini. Al massimo mette in contrapposizione il popolo e le élite, chi governa e chi è governato. Si ragiona insomma su fasce larghissime della popolazione e proprio Grillo rivendica sempre questa differenza, dice di interessarsi a tutti i cittadini senza discriminazione: basti pensare al reddito di cittadinanza. Per questo la Lega non può essere considerata populista: i suoi interessi si limitano ad un ambito territoriale circoscritto.

Si può dire lo stesso del Pd e di Matteo Renzi?
Io sono di parte, questo è ovvio, ma il Pd è quanto di più lontano ci sia dal populismo. È assolutamente ancorato alla vita delle istituzioni e crede nel loro funzionamento, non nella contrapposizione. I movimenti e i partiti populisti, invece, cercano proprio questo contrasto.

Non crede però che nella comunicazione renziana ci siano forti componenti populiste?
Certo, ma se da un lato dico che Grillo è populista, sono anche consapevole che Renzi sia un leader che usa nella comunicazione alcune strategie di tipo populista. Si rivolge direttamente ai cittadini, fa annunci e programmi, parla con loro in modo diretto, come se li chiamasse per nome, si mostra come un punto di riferimento e soprattutto ricorre continuamente alla disintermediazione.

Che significa?
Che nella sua strategia comunicativa non tiene conto degli intermediari tra il potere e i cittadini. Come i sindacati e le associazioni di categoria. Ma un conto è parlare di un partito populista che mira a rovesciare il potere, un conto è parlare delle tecniche di comunicazione.

Ma allora il populismo deve essere confinato solo all’opposizione?
Certamente è una caratteristica di espressioni politiche che sono in contrasto con il potere del momento. Era un termine neutro, oggi ha assunto un’accezione diversa, spesso negativa perché associata al qualunquismo, all’idea che tutti possano governare, che tutti siano capaci di fare tutto solo in virtù della propria onestà. E poi invece capita continuamente che un partito che si definisce populista poi, una volta salito al potere, si istituzionalizzi ed entri nei meccanismi di governo. Sarei davvero curiosa di vedere cosa farebbero i Cinque Stelle.

di Virginia della Sala

da Il Fatto Quotidiano del 29 agosto

Aggiornato da Redazione Web il 30 agosto 2015 alle ore 13.22

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