A Beautiful Mind. La lezione accademica, scientifica, ma soprattutto umana, del dottor Oliver Sacks, morto ad 82 anni per un cancro al fegato, va inscritta parimenti tra i tre spazi dimensionali di un campo medico che trasformatosi in divulgazione da best seller ha avuto un successo comunicativo sorprendente ed omogeneo in tutto il pianeta: il cervello, la malattia e la vicinanza con i propri pazienti. Una dozzina di saggi in 40 anni di carriera da neurologo hanno portato Sacks nell’olimpo di un sapere a metà strada tra l’affabile racconto dell’umanità esaminata, e la continua scoperta scientifica. Senza mai dimenticare una palpabile e sentita attenzione verso i “malati”: quelli internati nelle cliniche, come quelli incontrati da antropologo itinerante nella lande più desolate della terra. Senza questa bussola empatica è difficile comprendere Sacks scrittore, tradotto e letto in decine di nazioni (in Italia da Adelphi).
Il ragazzino londinese, nato il 9 luglio del 1933 da famiglia ebraica, sfollato in campagna durante la guerra, che muove i primi passi nel sapere accademico quasi da piccolo chimico, periodo dell’adolescenza poi raccontato con passione e generosità nel libro Zio Tungsteno (2001), si laurea nel 1954 al Queen’s College di Oxford in fisica e biologia e nel 1958 in medicina e chirurgia. Trasferitosi negli Usa comincia a lavorare come medico al Mount Zion di San Francisco e alla UCLA sulla costa Ovest e poi sulla costa Est nel 1965 a New York al Beth Abraham Hospital dove inizia l’esperienza professionale più intensa e celebre della sua carriera: lo studio di alcuni pazienti post-encefalitici dell’ospedale a cui aveva cominciato a somministrare un farmaco sperimentale – L-DOPA. Questa vicenda diventa un libro di Sacks nel 1973 e un film nel 1990 firmato da Penny Marshall con un catatonico Robert De Niro tra i pazienti e Robin Williams ad interpretate un dolente e barbutissimo Sacks, alias dr. Sayer. De Niro, Williams e Sacks passarono insieme molte ore nell’ospedale prima di iniziare le riprese per osservare i pazienti. E tra un Vin Diesel all’esordio attoriale come inserviente dell’ospedale, Risvegli amplificò ulteriormente la sua forma originaria letteraria tanto di riportare in auge, soprattutto in Italia gli altri titoli di Sacks. Un altro dato che in pochi conoscono è che L-DOPA venne usato per i sintomi di un mai confermato Parkinson pochi mesi prima di morire dallo stesso Robin Williams.
Una carriera letteraria iniziata nel 1970, guarda caso con il saggio Emicrania, quasi che la dichiarazione d’intenti di Sacks, il nucleo fondante di ogni analisi neurologica, non potesse che avere altro storico inizio. Nulla di eccezionale quel libro, ma passando da Risvegli (1973), si arriva alla svolta della vita: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1984), saggio in cui vengono esposti 24 casi di pazienti affetti da disturbi neurologici delle funzioni del cervello. Sacks trae spunto per il titolo da uno di questi casi, quello di un importante musicista, suo paziente, che aveva scambiato letteralmente la testa della moglie con un cappello tentando di afferrarla per mettersela in testa.
L’uomo non aveva nessun problema alla vista: era il suo cervello ad avere abdicato nell’assegnare un significato visivo agli oggetti attorno a sé. Il disturbo si chiama “prosopagnosia”. Sacks non fece in tempo a diagnosticarlo perché non seguì più il paziente: ma è proprio in questa elencazione di storie apparentemente “bizzarre” che la curiosità del lettore profano si mescola al tentativo di analisi e soluzione scientifica, motivo principale del moltiplicarsi delle vendite e delle considerazioni più del mondo letterario, che di un sempre restio e scettico mondo accademico. Come del resto ne L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello l’autore fonda il suo stile di scrittura, descritto da lui stesso nelle prime pagine del libro: “Sono attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza, la malattia: gli animali si ammalano, ma solo l’uomo cade radicalmente in preda alla malattia”.
Un altro titolo fondamentale nella carriera del professore londinese è L’isola dei senza colori (1997). Dai suoi viaggi in Micronesia Sacks viene colpito da una patologia come quella della cecità cromatica completa, l’acromatopsia, che si manifesta nell’atollo di Pingelap, dove gli abitanti del luogo vedono il mondo in bianco, nero e sfumature di grigio, mentre la terra attorno a loro è un tripudio di colori. Sacks più che addentrarsi negli sviluppi della patologia e nei risvolti medici tout court, legati alla formazione successiva di una sindrome neurodegenerativa simile alla SLA e al Parkinson, si sofferma a descrivere ed osservare i suoi casi umani, oscillando tra l’approccio darwinista della scoperta e una magistrale arte narrativa della sorpresa e dell’umanità dell’accettazione all’interno di un indecifrato rapporto fra mente e natura che circonda ognuno di noi.
I soggetti dei suoi libri, per Sacks, non sono mai stati mostri da esposizione circense, tanto che nell’ultimo lavoro pubblicato nel 2015, dopo decine di successi commerciali mondiali, è lui stesso a raccontarsi in un autobiografia (On the Move) dove in primo piano finisce la sua giovinezza e la sua omosessualità. Foto da aitante ragazzone in motocicletta con giubbotto di pelle a nascondere una conclamata timidezza, e l’autoisolamento che l’ha costretto a vivere quasi in simbiosi coi suoi pazienti. In On the Move c’è il primo innamoramento per il poeta Richard Selig a Oxford nel 1953 quando in Inghilterra ad essere gay si finiva ancora in prigione, la fase da culturista con pettorali e bicipiti gonfi in California, quella da maturo e barbuto “bear” e infine dopo una trentennale vita da single, l’incontro con lo scrittore Billy Hayes nel 2008 e il relativo rapporto che va ad iniziare. L’epigrafe del bellissimo libro, tutto incentrato sulla delicata e vitale presenza di questa “Beautiful Mind” è mutuata di Kierkegaard: “La vita va vissuta in avanti, ma può essere capita solo all’indietro”.
La lettera al New York Times – “Non riesco a fingere di non avere paura, ma il sentimento predominante è gratitudine: sono stato un essere senziente su questo splendido pianeta, e ciò è stato un privilegio e un’avventura”, aveva scritto a febbraio sul New York Times, annunciando di essere malato di cancro al fegato in fase terminale. Tutto è cominciato otto anni fa con un melanoma all’occhio che sembrava risolto. Solo il due per cento dei casi vanno in metastasi, ed è quello che è successo a Sacks il cui fegato era allora per un terzo investito dalla malattia e “non c’è niente da fare” se non forse rallentare l’avanzamento del tumore. Eppure, lo studioso spiegava di continuare a vivere ogni giorno che gli restava con l’entusiasmo di sempre.
“Adesso è a me che spetta scegliere come vivere i mesi che ho davanti. Devo viverli nel modo più ricco, profondo e produttivo possibile”, scriveva, incoraggiato in questo da uno dei suoi filosofi preferiti, David Hume che, avendo scoperto di essere malato terminale all’età di 65 anni, scrisse una breve autobiografia in 24 ore e la intitolò: ‘La Mia Vita’. “Adesso – aggiungeva lo scrittore – conto sulla speranza di dissolvermi rapidamente. Finora ho sofferto poco e quel che è più strano, non ho mai vissuto un attimo di abbattimento morale. Possiedo lo stesso ardore di sempre negli studi, la stessa allegria in compagnia”.
Al compimento dell’ottantesimo anno Sacks aveva compilato sempre per il New York Times un “elogio della vecchiaia”. Il neurologo aveva proclamato che il compleanno aveva segnato per lui l’inizio di una nuova era: “Non penso alla vecchiaia come a un epoca più triste da sopportare ma un tempo di piacere e libertà: libertà dalle fastidiose urgenze di giorni precedenti, libertà di esplorare i miei desideri e di legare assieme pensieri e sentimenti di una vita”.