“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole”. È in testimonianze senza tempo come quella di Primo Levi in “Se questo è un uomo” che, a più di 70 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, si perpetua nel mondo la memoria dell’orrore dei campi di sterminio nazisti. Ma il trauma patito dai sopravvissuti alla Shoah, come lo scrittore piemontese, non si tramanda di generazione in generazione solo attraverso le loro parole, ma anche biologicamente. Lo sostiene uno studio condotto dal Mount Sinai hospital di New York e pubblicato sulla rivista “Biological Psychiatry” (leggi).

Gli scienziati americani hanno analizzato il Dna di 32 ebrei, uomini e donne, deportati nei lager nazisti, e dei loro figli, scoprendo in questi ultimi alterazioni genetiche collegabili a deficit dell’attenzione, stress e depressione, assenti nelle famiglie di origine ebraica vissute lontano dall’Europa durante la guerra. Le modifiche appaiono, in particolare, correlate a un gene, “fkbp5”, coinvolto nella regolazione degli ormoni dello stress e nella capacità di reagire a eventi estremi. Le analisi genetiche hanno, inoltre, escluso la possibilità che i cambiamenti siano il risultato di un trauma di cui i figli dei sopravvissuti all’Olocausto hanno fatto esperienza diretta, portando i ricercatori ad associarli alla terribile esperienza dei lager. “Per quanto ne sappiamo, questa è la prima dimostrazione della trasmissione di stress precedente al concepimento con cambiamenti genetici sia nei genitori che nei figli”, afferma Rachel Yehuda, coordinatrice del gruppo di ricerca e tra le massime esperte negli studi sul cosiddetto stress post-traumatico.

L’idea che le esperienze di vita di un individuo possano trasmettersi alle future generazioni, modificandone il Dna, è nata solo di recente, negli Anni 2000, fino a trovare sempre più consenso tra genetisti e biologi molecolari. Gli esperti definiscono questa nuova branca della biologia “epigenomica”. In pratica, ogni individuo non è la semplice sommatoria numerica dei propri geni. Un ruolo chiave nel definire le caratteristiche personali è, infatti, svolto da fattori esterni, ambientali. Fattori come fumo, dieta e stress, che incidono sull’attività del Dna attraverso l’aggiunta di piccoli gruppi chimici, simili a etichette, in grado di spegnere e accendere specifici geni, ad esempio solo in alcuni tessuti e organi.

Studi recenti hanno dimostrato che queste etichette chimiche che regolano l’attività genica possono essere trasmesse ai figli, anche se i dettagli molecolari con cui avviene questa trasmissione sono ancora poco noti . Uno studio olandese, ad esempio dimostra che le donne nate in Olanda alla fine della Seconda guerra mondiale, in un periodo di fame e povertà, hanno un rischio superiore alla media di sviluppare forme di schizofrenia (leggi). Un altro studio, pubblicato lo scorso anno sull’European Journal of Human Genetics dimostra, inoltre, che gli uomini che fumano prima della pubertà hanno una maggiore probabilità di concepire figli maschi in sovrappeso rispetto agli altri padri (leggi).

La ricerca Usa dimostra adesso che anche l’inferno dei lager nazisti può lasciare tracce nel patrimonio genetico. Un lascito che è anche una forma di resilienza biologica, una prova cioè di come la natura tenti di resistere e contrastare le situazioni di maggiore stress. “Questi risultati – sottolinea Yehuda – rappresentano un’opportunità per imparare molte cose importanti sul modo in cui gli esseri umani si adattano all’ambiente, e – conclude la studiosa – su come potrebbe trasmettersi questa particolare resilienza ambientale”.

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