Sembrava molto più grande, Lady Diana Spencer, principessa del Galles e soprattutto principessa di cuori (tutti infranti, a cominciare dal suo), eppure quando è morta sotto il tunnel dell’Alma a Parigi aveva solo 36 anni. Aveva bruciato le tappe troppo velocemente, visto che a 20 anni appena compiuti l’avevano sbattuta sull’altare di Westminster nel ruolo della principessa delle favole, a sposare un uomo di tredici anni più grande di lei, che non la amava e non la avrebbe amata neanche in futuro. Diana alla favola ci credeva davvero, almeno all’inizio, ma la realtà aveva presentato il conto già dai primissimi anni di matrimonio. Carlo era innamorato da anni di Camilla Parker-Bowles, che per ovvi motivi non poteva sposare (era già sposata, l’attuale duchessa di Cornovaglia). Diana era solo la ragazza giusta per regalare ai Windsor un erede al trono: bella, vergine, discendente di una delle famiglie più nobili d’Inghilterra. Tutto perfetto, per la gioia di Elisabetta II e la frustrazione del principe di Galles.
E poi Diana aveva un talento naturale nell’affascinare le folle, dote che certamente mancava al più grigio marito. La triste e fallimentare vita coniugale faceva da contraltare a una vita pubblica brillante, entusiasmante, con la principessa osannata dal popolo, in un periodo certamente non facile per la monarchia britannica. E qui scatta il primo enorme paradosso della parabola terrena di Diana Spencer: nessuno più di lei ha creato guai e grattacapi a Elisabetta; ma nessuno più di lei ha aiutato la monarchia inglese a entrare nel XXI secolo, lasciandosi dietro i rituali polverosi di una istituzione che aveva perso il contatto con la realtà.
Persino gli amanti, le scappatelle, le bizze di una donna dallo spirito indomabile hanno aiutato la Regina. E Elisabetta, che è tutto fuorché donna di scarsa intelligenza, lo sa meglio di chiunque altro. Il dualismo tra la monarca austera e la principessa mondana ha segnato quindici anni di storia britannica e l’eredità della principessa del popolo dà ancora oggi i suoi frutti. L’eredità più grande di Diana è rappresentata da una ragazza che la principessa non ha nemmeno mai conosciuto, anche perché aveva solo 15 anni, quando Henri Paul è andato a schiantarsi contro quel pilastro parigino: si chiama Kate Middleton, ha sposato il figlio di Diana e sarà regina del Regno Unito. Kate è la versione 2.0 di Diana: senza nobili natali, ma naturalmente adorabile come la suocera che non ha mai conosciuto. Elisabetta II avrà pensato anche a questo quando ha deciso di assecondare il sentimento sincero del nipote William: charme, glamour, tabloid pazzi di lei e in più, stavolta, i due sposini si amavano davvero, mica come Carlo e Diana, mica come la favola triste che venticinque anni prima Elisabetta aveva contribuito a scrivere.
Oggi, a diciotto anni dalla morte di Lady D, forse possiamo anche ammettere che l’immagine agiografica costruita attorno alla principessa non era poi così rispondente alla realtà. Vittima di un matrimonio infelice, per carità, ma Diana non era una santa, grazie al cielo, e di errori, soprattutto per quanto riguarda la vita sentimentale, ne ha fatti a bizzeffe. Ma di quella ragazza cresciuta troppo in fretta, con lo sguardo perennemente basso, anche in mezzo a fotografi e star del cinema e della musica, ha conquistato il mondo proprio per questo. Era umana, troppo umana, in un ambiente che pretende superpoteri, altrimenti non ne esci vivo. La sua leggenda deriva anche e soprattutto dalla morte prematura, dal finale perfetto per una favola triste. Una morte che i tabloid inglesi, abituali rovistatori di ‘monnezza’, hanno sviscerato per anni alla ricerca di chissà quale complotto reale. E invece era solo destino, un destino scritto nello sguardo triste di una donna fragile. Di una moglie infelice e tradita, che ha tradito a sua volta e che cercava disperatamente calore umano, scampoli di affetto quasi sempre fasullo, e che in quella giostra infernale alla ricerca di qualcuno da amare ci ha lasciato la vita. Come era prevedibile, come era ovvio e, parlando da cinici narratori, come era auspicabile per dare alla sua parabola terrena un finale crudelmente perfetto.