Durante il consiglio federale della Figc, che si è riunito lunedì a Milano, il numero uno del calcio italiano Carlo Tavecchio – quello stesso signore che in un’intervista a Report aveva candidamente ammesso come “nel calcio pensavamo che le donne fossero handicappate” – ha ufficializzato la nascita di un Comitato calcio donne, interno alla Federazione stessa. Primi passi politici di una maratona che di anno in anno sembra, almeno in Italia, allungare i chilometri del suo percorso.
Ne sanno qualcosa le ragazze dell’Acf Brescia Femminile che solo tre mesi fa hanno vinto la Coppa Italia battendo in finale il Tavagnacco ad Abano Terme in un incontro che si è disputato su un campo in condizioni precarie con erba alta e linee perimetrali tracciate a partita in corso. In quell’occasione non è stato eseguito neppure l’inno nazionale e le atlete di entrambe le squadre a fine gara hanno deciso all’unanimità di non farsi premiare dai rappresentanti della Lega Nazionale Dilettanti che aveva organizzato l’evento.
Una situazione neppure immaginabile se si fosse trattato di calciatori, ma certamente in linea con i pensieri di quegli stessi vertici guidati da Felice Belloli, all’epoca presidente della Lnd, che solo dieci giorni prima della finalissima aveva dichiarato: “Basta dare soldi a quelle quattro lesbiche”.
Milena Bertolini, allenatrice dell’Acf Brescia Femminile, nonostante questi scempi le calciatrici italiane sono pronte a ripartire per una nuova stagione il cui calcio d’inizio è previsto per metà ottobre?
Siamo pronte a ripartire nel senso che ci stiamo preparando sul piano fisico e tecnico. Sul fatto invece che inizi il campionato e che si scenda effettivamente in campo dipenderà dai vertici del calcio: se questa volta hanno seriamente intenzione di fare le cose per bene o no. È ora di darci un taglio con i colloqui e gli incontri interlocutori con Tavecchio.
Come interpretate questo Comitato in Figc e cosa vi aspettate dal nuovo organismo?
Noi puntiamo tutto su questo nuovo mini gruppo di lavoro che sulla carta dovrebbe essere l’unico referente per quanto riguarda l’organizzazione, gestione e promozione del calcio donne. Riunisce le varie componenti e annovera oltre a noi anche i rappresentanti di Aic, Aiac, Lega nazionale dilettanti e Serie A e B, nessuno escluso. Per noi questo Comitato decide su tutto: dalla promozione dell’attività di base all’incremento delle iscrizioni oltre agli investimenti necessari per formare e qualificare tanto gli allenatori e le allenatrici quanto le calciatrici. Il movimento femminile è stanco che le decisioni vengano rinviate all’infinito come è stato fatto in questi anni. Non se ne può più dell’esasperata frammentarietà della gestione, suddivisa tra Lega e Club Italia. Il calcio donne nel resto del mondo suscita enorme interesse e veicola denaro. In Italia rimaniamo dilettanti di nome e di fatto come sancito dai vertici del calcio.
In Italia in tutte le professioni sussiste una disparità salariale tra uomo e donna. In percentuale quanto è tra omologhi mister?
È un paragone impossibile. In questo ambito la forbice si allarga all’ennesima potenza. Le calciatrici italiane, a differenza delle colleghe europee, devono trovarsi un altro lavoro perché la maggior parte delle volte non ricevono neppure un rimborso spese. Un esempio semplice ed immediato ci illustra il divario esistente tra i compensi percepiti da una giocatrice del Lione rispetto ad una del Brescia: il club francese investe dai 4 ai 5 milioni di euro l’anno, noi abbiamo un budget di circa 500mila euro complessivi. Uno stipendio medio in Francia varia da un minimo di 6mila euro l’anno fino ad un massimo di 40. In Italia è già un lusso quando c’è un rimborso spese di qualche centinaio di euro e saranno giusto un paio le giocatrici che arrivano a guadagnare 2000 euro al mese.
Al Master di Coverciano, la sua tesi di fine corso allenatori riguardava la “Cantera” del Barcellona. Come sono messi da quelle parti con il calcio donne?
La Spagna in generale e il Barcellona in particolare ci hanno surclassato. Non ci voleva molto per la verità, visto come siamo messe. Questo confronto però mi è utile per rispondere a quanti sostengono la teoria secondo cui in Italia le donne calciatrici sono così bistrattate per una questione di cultura mediterranea rispetto alla presunta visione emancipata dei paesi del Nord Europa. Il Barcellona infatti non ha questi problemi e i blaugrana dispongono regolarmente di una propria squadra femminile. Tra i pretesti sul disinteresse per il nostro sport c’era anche quello per cui fino a che non si fosse vinto non si poteva pretendere di suscitare attenzione. Bene, nel 2008 l’Italia femminile ha vinto il Campionato europeo Under 19 e l’anno scorso ha conquistato il bronzo ai mondiali Under 17. Ma non basta perché purtroppo a noi, dal punto di vista dell’organizzazione, fa le scarpe pure la Svizzera che con tutto il rispetto non dispone di una grande tradizione calcistica.
Di sicuro però se nel pre-partita le telecamere indugiassero con inquadrature su di voi in calzoncini e reggiseno, ci sarebbero picchi di ascolti garantiti e benefici in termini di visibilità mediatica.
Questo è certo e in parte già avviene, tanto che siamo noi a stoppare le telecamere mentre ci spogliamo perché non siamo interessate a quel tipo di ritorno di immagine. Il nostro è un movimento fatto di atlete, dirigenti, staff e mister di altissimo livello professionistico. È questo aspetto che deve infrangere il muro culturale e di pregiudizio.
Qualcuno sostiene che la diffusione della pallavolo tra le ragazze sia dovuta anche alla serie di animazione “Mimì e le ragazze della pallavolo” che ebbe grande successo negli anni ‘80. Per il calcio servirebbe dunque la versione femminile dei mitici “Holly e Benji”?
Assolutamente sì. Il ruolo della formazione e della divulgazione in età scolastica sono fondamentali e incidono profondamente nella cultura di tutti. Anche perché se in termini di comunicazione la FIGC partorisce slogan come: “Spogliati dai pregiudizi e gioca” noi preferiamo farci rappresentare dai cartoni animati.
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