“È evidente a tutti che il consumo di prodotto audiovisivo è radicalmente mutato e assistiamo oggi ad una grande transizione; si è passati da una programmazione predefinita verso un unico dispositivo, il televisore, ad una visione “multi screen” in cui lo spettatore ha a disposizione più piattaforme/dispositivi – tablet, smartphone e Pc – e fruisce dei contenuti che lui stesso sceglie senza vincoli di tempo e di luogo…e chi sfrutta il cinema e l’audiovisivo deve contribuire a finanziarli e le grandi compagnie devono restituire al settore una quota dei guadagni, come accade in molti altri paesi ma non ancora in Italia”.

E’ muovendo da questo presupposto che Anac e 100 autori, due delle associazioni più rappresentative degli autori dell’audiovisivo, chiedono a Parlamento e governo di mettere mano ad una riforma della disciplina del settore cinematografico in modo da far sì “che chiunque realizzi profitti dallo sfruttamento di contenuti audiovisivi, come in particolare le aziende Over-the-Top del web (Google, Youtube, Apple ad esempio, che realizzano ricavi enormi), abbia l’obbligo di reinvestirne una parte nel settore audiovisivo, contribuendo così al finanziamento di film e di prodotti italiani, dato che i finanziamenti all’audiovisivo sono enormemente calati negli ultimi anni”.

E per far sentire la loro voce le due associazioni hanno prodotto un video che verrà proiettato prima di ogni film in programma attraverso il quale raccontano con immagini di repertorio, grafica, musica e parole quanto sia cambiato il mondo dell’audiovisivo dal 1965 – anno del varo della legge sul sistema di finanziamento dell’industria cinematografica nazionale – ad oggi.

Guai a negare agli autori di cinema e televisione il sacrosanto diritto di chiedere a Parlamento e governo di sostenere l’industria televisiva e cinematografica, specie nazionale, ma l’iniziativa delle due associazioni sembra anacronistica e, a tratti paradossale nell’ideazione e nella realizzazione.

Tanto per cominciare è curioso che gli autori di cinema e Tv “battano cassa” davanti a Parlamento e governo, chiedendo che Apple, Google, Yahoo e – a giudicare dalle immagini – anche Skype [ndr anche se non si capisce cosa abbia a che vedere il popolare servizio di videoconferenza con lo sfruttamento dei contenuti del cinema e della Tv] vengano obbligati a finanziare l’industria audiovisiva, a meno di un anno dal tormentatissimo aggiornamento delle tariffe sulla c.d. copia privata per effetto del quale l’industria tecnologica è stata chiamata, proprio dal governo, a mettere mano al portafoglio per versare all’industria dei contenuti e, quindi, anche agli autori di cinema e Tv, oltre cento milioni di euro all’anno.

Ma non basta.

Non si capisce, infatti, a quale titolo Apple che già paga ogni anno una montagna di soldi in compensi da copia privata a fronte della vendita di smartphone, tablet e Pc e ne versa altrettanti all’industria televisiva e cinematografica a titolo di corrispettivo per la distribuzione dei film attraverso iTunes, meriti di essere rappresentata come una sorta di parassita dell’industria audiovisiva che la sfrutta senza riconoscerle alcunché.

Agli autori iscritti alle due associazioni non è, evidentemente, bastata la brutta figura fatta davanti al mondo intero, una manciata di mesi fa, quando il Direttore Generale della Siae, Gaetano Blandini, accanto ad un imbarazzatissimo Gino Paoli – all’epoca presidente della società – morsicò una mela in segno di sfida alla Apple nella arcinota vicenda sull’equo compenso per copia privata.

Con lo spot, destinato ad essere proiettato in un evento internazionale come le giornate degli autori di Venezia, infatti, si torna a puntare pubblicamente l’indice contro Apple e, questa volta, Google, Yahoo e gli altri big di Internet, accusandoli di parassitismo nei confronti dell’industria audiovisiva.

Ed è un messaggio che rischia, ancora una volta, di farci fare una brutta figura agli occhi del mondo perché l’industria audiovisiva sembra muovere dall’errato presupposto che l’industria tecnologica ed i c.d. over the top debbano finanziarla anziché – come nel 2015 sarebbe, forse, lecito attendersi – manifestare l’intenzione di cambiare pelle e strategie, rivedere talune vecchie e cattive abitudini superate dai tempi e porsi in condizione di sfruttare le straordinarie opportunità di crescita offerte da un mercato che – grazie proprio ai big della Rete – oggi conta oltre un miliardo di potenziali clienti, più di quanti cinema e televisione abbiano mai sognato di averne.

E’ un peccato che alcune tra le penne più illuminate della nostra televisione e del nostro cinema si presentino al mondo come vittime impotenti del nuovo contesto tecnologico anziché come suoi indiscussi protagonisti, intenzionati a coglierne ogni occasione.

Ed è un peccato che si punti l’indice contro i big di Internet anziché strizzargli l’occhiolino e corteggiarli come possibili straordinari partner per rilanciare il cinema globale sugli schermi del cinema più grande della storia dell’umanità.

E fa sorridere il fatto che il video utilizzato per promuovere l’iniziativa sia, sostanzialmente, un remake di un video quasi gemello, prodotto una manciata di anni fa, per trasmettere, in quell’occasione, un messaggio di contenuto quasi opposto ovvero un progetto di formazione sul cinema ai tempi di internet.

Le stesse immagini, la stessa grafica e, persino, lo stesso disegno – simbolo dello spot appena lanciato dalle due associazioni – con una folla che brandisce una montagna di smartphone, solo che ieri l’immagine stava ad indicare le nuove tecnologie come occasione di crescita per chi scrive cinema e televisione mentre oggi è usata per rappresentare plasticamente il preteso parassitismo dei big della tecnologia in danno dell’industria cinematografica e televisiva.

Ed è paradossale che gli autori di cinema e Tv domandino al parlamento di rivedere una “vecchia” legge del 1965 scritta – per dirla con gli autori di cinema e televisione – quando Gigliola Cinquetti “non aveva ancora l’età”, mentre l’intera materia del diritto d’autore dovrebbe restare governata da una legge del 1941 e, quindi, scritta quando la Cinguetti non era ancora nata.

Se quella espressa dalle due associazioni degli autori audiovisivi a Venezia rappresenta la posizione dell’industria audiovisiva nazionale rispetto alle cose della Rete, allora, c’è da preoccuparsi sul serio perché, cinema e televisione italiana, faranno fatica per davvero a salire sul treno del futuro.

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