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Ieri il mondo Lgbt si è svegliato con l’ennesimo incubo proveniente dall’ormai noiosissima discussione sul d.d.l. Cirinnà sulle unioni civili, che ha raggiunto traguardi da farsa.

Tutti sanno che quella sulle unioni civili è prima di tutto una legge doverosa sia dal punto di vista politico, vuoi perché i gay e le lesbiche italiani, che pagano le tasse e spesso fanno più figli delle famiglie etero, sono arcistufi di restare all’ombra del diritto e di essere oggetto dell’ostracismo di certi politicanti desiderosi di notorietà a spese nostre, vuoi perché nel continente europeo siamo, con un ritardo che sfiora ormai il ventennio, l’unico Paese a non essersi ancora occupato del problema. Essa è però, anche, una necessità dal punto di vista giuridico, visto che da anni il Parlamento le prende di santa ragione, per non essersi attivato sul punto, da ogni corte possibile, inclusa la Corte europea dei diritti umani.

Insomma, ciò che occorre approntare non è una legge comune, da strutturarsi unicamente sulla base delle richieste di una minoranza, bensì una sorta di tela, per usare una metafora, da tessersi lungo princìpi già ripetutamente affermati dalla giurisprudenza. Basta andarsi a leggere le sentenze, e magari anche qualche articolo di qualche accademico illuminato – e ce ne sono tanti! – che di quella giurisprudenza ha confezionato apposite note e commenti.

Che la legge vada fatta, peraltro, lo sanno benissimo soprattutto i politici del Partito Democratico, i quali però, contrariamente ai loro avversari che dicono apertamente ciò che pensano (detti anche alleati di governo, quelli di cui, con incredibile ingenuità, si cerca costantemente il consenso, con l’illusione che non faranno ostruzionismo, ma l’ostruzionismo lo fanno perché è nella loro natura, ossessivamente infetti dal morbo del “non mi piace quindi non lo puoi avere!“), hanno deciso ormai da tempo di svendere i diritti fondamentali della popolazione Lgbt in ossequio alle grandi intese, facendo peraltro buon viso a cattivo gioco con la mano sinistra e continuando, con l’altra mano, ad inventarsi tecnicismi da scaffale del supermercato.

Lo dimostra il fatto, tutto italiano, che ormai ciascuno, in quel partito, va per la sua strada.

Al netto di Maria Elena Boschi e Debora Serracchiani, dichiaratesi apertamente favorevoli all’estensione del matrimonio ma che si guardano bene dal provare a convincere i loro colleghi o anche solo dal ripeterlo con la costanza e l’impegno che sarebbero dovuti, almeno, agli elettori Lgbt del Partito Democratico (quelli che ancora non l’hanno abiurato, almeno), c’è anzitutto Monica Cirinnà, cui va dato atto di combattere coraggiosamente come un leone ferito in mezzo a un branco di iene, ma che cade nel tranello di definire “formali” modifiche che invece formali non sono, perché incidono sui diritti delle persone.

Da parte sua, invece, Ivan Scalfarotto va oltre la retorica e travisa completamente la giurisprudenza della Corte costituzionale, facendole dire cose che questa non ha mai detto, ovvero che le unioni omosessuali non sono famiglie fondate sul matrimonio ai sensi dell’articolo 29 della Costituzione. Evidentemente lui e il suo compagno, tra i pochissimi privilegiati fruitori dei trattamenti previdenziali riservati ai parlamentari e ai loro partner, non sono una famiglia, e allora perché godono di quel privilegio?

Ridicola è poi la versione di quello che Cirinnà chiama “articolo premissivo” – come se le premesse di una legge non fossero importanti per guidare chi poi la dovrà intepretare (il giudice, l’avvocato, lo studioso) – che arriva ad affermare, modifiche di ieri alla mano, che le coppie gay sono “formazioni sociali specifiche.

Vorrei essere molto chiaro sul punto: non è quello che chiedono i giudici.

Siamo infatti nel 2015, non nel 2010! E sebbene a qualcuno, anche nel Pd ma soprattutto tra i pasdaran di Ncd, piacerebbe riportarci indietro di un decennio, o magari di un secolo, bisogna rendersi conto che non c’è solo la Corte costituzionale: c’è anche la Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia per non prevedere nel proprio ordinamento interno un istituto giuridico per le coppie dello stesso sesso, in violazione del diritto di queste coppie al rispetto della loro vita privata e familiare. Giova ripeterlo ed evidenziarlo – E FAMILIARE.

E questa è una cosa che la Corte europea ripete ormai da cinque anni. Non ci interessa l’Europa? Bene, rimaniamo sul sacro suolo patrio e leggiamoci le sentenze della Corte Suprema di Cassazione, che dicono esattamente lo stesso.

Ma un punto mi inquieta, forse più del resto. Che in questo indecente dibattito su formazioni sociali specifiche e “per carità distinguiamo dal matrimonio sennò poi arrivano gli strali dei nostri benamati alleati di governo” nessuno ha fatto modestamente notare, come sarebbe stato invece opportuno, che in nessun altro Paese civile il dibattito ha raggiunto una sofisticazione da osteria come in Italia. In nessun altro Paese civile, infatti, si è prestata così poca attenzione alle vite delle persone e alle loro esigenze quotidiane, come nel nostro.

A questo punto possiamo anche chiamarlo banana, come facevano i monaci nel medioevo quando volevano mangiare la carne il venerdì di Quaresima (“Ego te baptizo piscem“), ma resta il fatto che l’unione omosessuale non è una banana. È un legame di affetto, responsabilità, condivisione e sacrificio identica a quella tra due persone di sesso opposto.

Per queste ultime si chiama matrimonio, perché per i gay dovrebbe essere diverso?

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