Mentre Papa Francesco scriveva la sua enciclica “Laudato sì” dove, tra le altre cose, se la sarebbe presa con l’economia e la finanza, che mettono il profitto davanti a tutto “senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano”, la curia di Bologna rimaneva impelagata nel più triste capitalismo frutto della globalizzazione: la gestione della chiusura di un’azienda bergamasca di sua proprietà, la cui produzione finiva in Bulgaria e i 50 dipendenti in mezzo a una strada.
Ecco la fine che ha fatto la Faac di Grassobbio, piccolo centro vicino l’aeroporto di Orio al Serio, dove da più di trent’anni trovava posto un’unità produttiva della nota azienda con sede a Zola Pedrosa, nel bolognese, che si occupa di cancelli elettrici e automatismi. Dal marzo scorso lì esistono solo capannoni deserti. Esattamente tre anni prima, il 17 marzo 2012 lo storico patron della Faac, Michelangelo Manini, muore. Quando il suo testamento viene aperto si scopre che lo stesso ha deciso di lasciare la sua azienda all’Arcidiocesi di Bologna. Sua eminenza il cardinale Carlo Caffarra fu così costretto a vestire i panni del capitano d’industria e a prendersi cura del 66 per cento della Faac, ovvero della quota di proprietà del Manini, mentre il restante 34 per cento rimaneva sotto controllo dei francesi della Somfy.
“La Chiesa di Bologna utilizzerà quei beni, così provvidenzialmente pervenutile, conformemente alle indicazioni della dottrina sociale della Chiesa, secondo il comandamento evangelico della carità”, riporta lo scarno comunicato della curia bolognese, diffuso al momento del passaggio di proprietà. E a Bergamo quelle parole rimbalzano con speranza: “Nel 2011 – dice Loretta Barilani, portavoce degli ex dipendenti della Faac di Grassobbio – già avevamo passato un momento difficile. A causa della crisi e delle commesse sempre inferiori, le 30 unità impiegatizie presenti nella bergamasca furono eliminate affinché il settore fosse concentrato nel bolognese. La nuova proprietà, che parlava di carità cristiana, ci fece ben sperare”.
“Io sarò la garanzia del vostro futuro” queste le parole che, secondo la Barilani, l’arcivescovo Caffarra comunciò ai dipendenti bergamaschi nel momento di annunciare l’acquisto da parte della curia del 100 per cento delle quote societarie e l’estromissione dei francesi dalla partita. Nel frattempo, nella primavera del 2012, la Faac aveva acquistato un’unità produttiva in Bulgaria e il consiglio d’amministrazione, guidato da Andrea Macellan ma presieduto da Andrea Moschetti, diretta espressione dell’economato dell’arcidiocesi, concorda sulla decisione di chiudere Grassobbio e di trasferire tutto all’estero. “Noi concordammo il piano di delocalizzazione coi sindacati (l’rsu era in mano alla Cisl ndr) e quindi coi lavoratori, stabilendo una buonauscita per ciascun dipendente e l’avvio di una serie di trattative per un possibile ricollocamento”, riferisce Michele Conchetto, direttore delle risorse umane della Faac, “Confermo – dice la Barilani – ricevemmo 24 mila euro a testa ma di un nuovo posto di lavoro, per il momento, nemmeno l’ombra”.
Oggi entra in scena la Lega Nord che nella bergamasca, si sa, ha una delle sue roccaforti; senza contare che il sindaco di Grassobbio, Ermenegildo Epis ne è un militante convinto. In più il Carroccio non fa mistero dell’antipatia che cova verso quei vescovi che criticano la politica della Lega. “Vorrei che il vescovo di Bergamo, al posto di prendersela con noi, alzasse la cornetta e chiamasse il suo collega di Bologna, per dirgli che sta sbagliando” ha dichiarato il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, prima di aggiungere: “Quel che combinano certi vescovi sta sicuramente facendo incazzare il buon Dio”.
Il fatto è che un piano di ristrutturazione in Faac è in corso sin dal 2011, ben prima che proprietario dell’azienda diventasse monsignor Caffarra. “Oggi però, complice anche queste revisioni della spesa, l’azienda è in utile – termina Loretta Barilani – per cui vorrei che a quanto incassa la curia, fosse applicato il principio evangelico della carità e fosse diviso tra i 50 operati lasciati a casa; che poi sono famiglie monoreddito, ragazze madri e via dicendo”.