Staremo più larghi, probabilmente saremo più poveri, di sicuro (ma non è certo una novità) più vecchi. Se le stime dell’Onu sono corrette – le anticipa il professor Massimo Livi Bacci, il maggiore studioso di demografia – da qui al 2050 perderemo tre milioni e mezzo di abitanti. E questa cifra racconta il declino dell’Italia e insieme dà il segno della distanza che c’è tra l’apparenza e la realtà. I barconi, il fiume di povera gente che si accalca e preme e muore per trovare scampo da noi trasforma quel che non c’è nell’unica realtà conosciuta e nel quotidiano e ossessivo dibattito: l’invasione dello straniero, la difesa dallo straniero.
E invece l’Istat ci ricorda che lo straniero sta andando via dall’Italia a gambe levate: tra il 2007 e il 2013 le iscrizioni all’anagrafe di nuovi cittadini italiani sono scese del 41 per cento. Erano 527mila nel 2007 e sono divenute 307mila. Partono, o ripartono, i migranti. E partono pure i residenti storici, i nostri figli. Nello stesso periodo infatti quasi triplica il numero degli italiani iscritti all’anagrafe estera. Erano 51mila nel 2007, sono divenuti 126mila nel 2013 (+147%).
La percezione alterata della realtà è figlia legittima dell’incessante rumore intorno a chi arriva. E del silenzio, altrettanto assordante ma anche oramai incredibile, intorno a chi fugge. Non dalla guerra, ma dalle nostre città, dai paesi, dalle campagne italiane. Matteo Salvini conduce da oramai un triennio una campagna sistematica contro il rischio di venire strangolati da una quantità di gente che da noi cerca lavoro. In verità in fila si sta per un altro viaggio e con un biglietto senza ritorno.
Oggi siamo quasi 61 milioni di abitanti, ma solo perché sono stabilmente residenti 5 milioni e 144mila stranieri. E il bilancio demografico tra il 2013 e il 2014 conta poche migliaia di unità in meno soltanto in ragione del fatto che quest’anno ci sono 92.352 nuovi stranieri con la residenza nel nostro Paese (+1,8%). I vecchi, coloro che invece lasciano per sempre questa terra, sono stati di più. I cimiteri si allargano. L’anno scorso i morti sono stati 598.364, i nati invece solo 502.596. Il saldo naturale è comunque negativo: – 95.768 (di cui 30.678 maschi e 65.130 femmine).
Più case vuote, e soprattutto più giovani che vanno via. Il declino è insieme demografico, economico e civile. La spina dorsale del Paese incrementa il ritmo delle partenze e il 30 per cento di chi saluta è giovane e laureato. Esportiamo classe dirigente e importiamo badanti.
Bisognerebbe parlare della desertificazione dell’area appenninica dell’Italia, e la lenta ma progressiva erosione dell’identità del Mezzogiorno. E invece il pericolo attuale sono i barconi…
Al Sud i cimiteri sono ancora più affollati, e se il Nord può rimpiazzare – sempre che la crisi economica non infligga altri guai – la sua capacità produttiva, nel Mezzogiorno non esiste più nulla. Azzerati quasi gli investimenti, ridotti al lumicino i finanziamenti pubblici alle imprese. Il tracollo risulta completo se si tiene conto delle partenze dei lavoratori attivi, che si dirigono verso il nord dell’Italia e all’estero, della presenza straniera che si riduce sempre più e viene collocata soprattutto nell’impiego – spesso schiavizzato – in agricoltura. Sono i disperati, gli ultimi degli ultimi, a resistere. E anche qui, il vocìo quotidiano sul federalismo, sui costi standard da applicare alle Regioni sprecone, ai Comuni viziosi, trovano però sconcertanti segnali di asimmetria. Secondo lo Svimez, il centro studi che analizza le dinamiche economiche e sociali del Mezzogiorno, ai Comuni del Centro-nord è stato trasferito il 25% in più del fabbisogno standard. Ai Comuni meridionali il 53,5%, la metà di quanto ipotizzato. E i redditi delle famiglie (capofamiglia under 35) sono scesi quasi del 25 per cento, mentre al Nord sono saliti, malgrado la crisi, dell’1,7 per cento.
L’Italia si restringe, si fa piccola, si desertifica, un intero pezzo del suo territorio scompare dai radar. Silenzio.
Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2015