Il seguitissimo programma torna in tv (da stasera, ogni venerdì in prima serata) come uno dei fiori all'occhiello della rete diretta da Sebastiano Lombardi, dopo l'ultima stagione ricca di soddisfazioni all'Auditel. Merito di un format modificato con pazienza certosina per adattarlo allo stile del conduttore, ma anche di un interesse costante del pubblico nei confronti dei fatti di sangue.
All’inizio, quando Gianluigi Nuzzi era arrivato alla conduzione di Quarto Grado dopo l’addio di Salvo Sottile e del suo stile ultraenfatico, qualcuno aveva storto il muso. Dopo due anni, l’ennesima edizione di Quarto Grado torna in tv (da stasera, ogni venerdì in prima serata su Rete4) come uno dei fiori all’occhiello della rete diretta da Sebastiano Lombardi, dopo l’ultima stagione ricca di soddisfazioni all’Auditel. Merito di un format modificato con pazienza certosina per adattarlo allo stile di Nuzzi, ma anche di un interesse costante del pubblico nei confronti dei fatti di sangue.
Nuzzi, perché la cronaca nera in tv funziona così tanto?
La cronaca interessa da sempre. La mostruosità di certe azioni da parte di persone apparentemente normali lascia basiti. La normalità che esce dai binari fa paura e si cerca di capire le dinamiche.
Il confine tra il diritto di cronaca e l’accanimento su particolari truci è molto labili. Che regole si dà per non oltrepassarlo?
Le stesse che Mario Calabresi ha utilizzato per spiegare perché ha deciso di pubblicare la foto del bambino siriano morto su una spiaggia turca. Il dramma di quel bambino è il dramma di ogni bambino che muore. Quando un fatto di cronaca è così potente, va spiegato.
Dunque lei avrebbe pubblicato quell’immagine?
Penso di sì. Se vogliamo una cronaca che non ci dia mal di pancia, possiamo riaprire l’Istituto Luce. Un giornalista non deve vedere se una cosa dà fastidio. Ovviamente dobbiamo rispettare la sensibilità di chi ci segue: noi, per esempio, non mandiamo mai in onda fotografie di cadaveri. È una scelta condivisa con Siria Magri, la curatrice di Quarto Grado.
Anche in questa edizione lancerete una campagna di sensibilizzazione. Quest’anno tocca a #baciachiami. Ci spiega di cosa si tratta?
Ci tengo particolarmente. Cercavo qualcosa che fosse un simbolo non tragico, come la scarpa rossa che indica la violenza ai danni delle donne, ma che mandasse un messaggio positivo sul rispetto del sentimento all’interno delle famiglie. E allora ho pensato al bacio alle persone che ami o agli oggetti importanti per la vita di ognuno. Il bacio è la forma più alta dell’amore, e allora chiedere alla nostra “famiglia” di Quarto Grado di mandarci una foto o un video con un bacio, credo sia la forma più alta per far vedere che l’amore vince sulla violenza. In questo modo permettiamo a tutti di credere in un messaggio forte perché tutti sono protagonisti.
Quando è arrivato a Quarto Grado, qualcuno pensava che il programma non avrebbe resistito al cambio di conduzione. I fatti, dopo due anni, le danno ragione. Qual è stato l’ingrediente principale di questo successo?
Quarto grado, grazie anche alla sensibilità di Siria Magri, è stato rivisto proprio perché è cambiata la conduzione. Oggi è molto diverso rispetto a quello precedente: è un format che cerca sempre di rinnovarsi per restare al passo con i tempi. Personalmente è stato un doppio carpiato, che ho però ho cercato di vivere con umiltà.
A proposito, alle sue prima apparizioni televisive, alcuni pensavano che lei fosse troppo “freddo” per il grande pubblico anche perché il pubblico si era abituato a uno stile molto “enfatico” su certi temi. Oggi la elogiano anche i critici più feroci. È cambiato lei o sono cambiati i gusti del pubblico (e della critica)?
Credo che ci sia una forma di rispetto nei confronti della mia identità. Non faccio le smorfie per catturare attenzione. Non sono un piacione o una macchietta, non è il mio ruolo. Non sono una star della televisione, ma un giornalista che fa un programma di informazione. Ho raccontato chi sono, ho dovuto farmi conoscere. Per quel mondo ero una novità assoluta, ma ho guardato negli occhi un pubblico nuovo che ho conosciuto e che mi ha conosciuto.
Ormai i programmi di approfondimento sulla cronaca nera hanno ascolti molto più alti dei talk show politici. È un genere morto?
È finito il momento delle contrapposizioni, in questo momento mi sembra che siano tutti amici. C’è un’amalgama che sfuoca le sfumature, e quando le sfumature spariscono, cade l’interesse. A volte mi è capitato di arrabbiarmi in un talk politico, poi, durante la pausa pubblicitaria, mi sono avvicinato al politico e lui mi dava del tu e diceva “ma sì, tanto siamo amici”. Queste sceneggiate sono la ghigliottina per il talk. Se fai finta di recitare, la gente, che non è stupida, capisce e cambia canale. Stesse facce, stesse frasi, stessa ipocrisia. Infatti, chi ha provato a fare esperimenti diversi, come Del Debbio, ha avuto un riscontro positivo. Il mio rammarico personale, però, è vedere che la tv di inchiesta fatica a rimanere a galla.
È un problema di ascolti o di coraggio?
Di ascolti. In un momento di contrazione dei consumi e delle speranze, la gente ha difficoltà a calarsi nelle viscere dei problemi come fanno con sapienza la Gabanelli e la sua squadra di Report. Ha bisogno di una informazione che non sia troppo impegnativa.
E quindi si spiega anche il successo dell’infotainment. Che ne pensi?
Se fatto con correttezza va bene. Non bisogna mai pensare che il nostro palato sia il palato del paese. Possiamo criticare Barbara D’Urso o Maria De Filippi? Certo, possiamo farlo. Ma le novità che hanno portato nel linguaggio televisivo sono innegabili. Loro parlano al paese, perché l’Italia non è il paese dei salotti, ma dei piccoli laboratori di provincia, del ceto medio. Non siamo un popolo di illuminati, non siamo alla Sorbona. E tu, per far capire un problema, ad esempio il femminicidio, non puoi parlare di questioni sociologiche o psichiatriche dei soggetti coinvolti, perché le persone non ti capiscono. E il problema, ricordiamolo sempre, non è di chi non capisce, ma di chi non si sa spiegare. Bisogna avere un po’ di umiltà.