La storia di Freddie Mercury è la storia di una delle più grandi rockstar che abbiano mai abitato e ‘cantato’ il pianeta terra: nel giorno (oggi) in cui avrebbe compiuto 69 anni, vale la pena – nel tentativo di andare oltre le solite belle e dovute frasi di rito – ricordare la sua enorme parabola artistica e, se possibile, tentare di immaginarlo ai giorni nostri: come se quel 24 Novembre del 1991 non fosse accaduto nulla, se non un timido e prevedibile temporale inglese. Figlio di un ufficiale coloniale, si diplomò dapprima come designer per poi lavorare in un negozio di abiti usati assieme all’amica (in un primo momento anche fidanzata) Mary Austin: l’unica assieme al compagno Jim Hutton a figurare nel suo testamento oltre ovviamente ai più stretti parenti. L’incontro con i Queen avvenne prima con Brian May e poi con Roger Taylor, che assieme a Mercury diedero vita agli Smile: all’interno dei quali, non essendosi ancora materializzata la figura del futuro bassista John Deacon, militava un certo Tim Staffell, che uscito dal gruppo poco dopo con l’assoluta certezza che questo non avrebbe potuto combinare nulla di buono finirà invece per figurare e far parlare di sè solo in relazione alle tante retrospettive future realizzate sulla band.
Con buona pace di Staffell (che, poverino, in fin dei conti aveva pure un’enorme statistica dalla “sua”) i Queen sono stati uno dei pochi gruppi a tinteggiare la loro gloriosa carriera attingendo da un’immensa tavolozza di colori musicali: dal (quasi) progressive degli esordi (“Queen”, “Queen II”), al synth (dance?) pop del ‘periodo di mezzo’ (“Hot Space”) passando per il rock glam e pomposo del secondo e dell’ultimo periodo del gruppo (“A Day At The Races”, “A Night At The Opera”, “The Game”, “Innuendo”). Probabilmente la carriera di Mercury – per quanto paradossale questo possa suonare – andò ben oltre quelli che erano i suoi intenti e fu proprio la malattia (l’AIDS) a convincerlo a spingersi oltre i suoi limiti psicofisici, contando che le sue capacità vocali andarono invece solo che crescendo (se possibile) fino alla fine. Quello che a Freddie Mercury piacerebbe molto poco, viste le sue stesse premesse (“Non mi vedo a cantare e saltare sul palco chissà quanto in là con gli anni”), sarebbe assistere a quello che rimane (molto poco) di quella che fu anzitutto la ‘sua’ creatura musicale: dal momento che la morte di uno dei principali interpreti del genere (il rock) cominciò a diventare abbastanza lontana nel tempo, sia Brian May che Roger Tayor (salutati a piene mani anche da John Deacon) non hanno perso un pretesto per portare in tour (prima con Paul Rodgers, poi con Adam Lambert) i più grandi successi della band, senza risparmiare ai fan più devoti (tra cui il sottoscritto) qualche ologramma a destra e a manca per concerto: guarda caso sempre in prossimità dei brani che nessuno, se non lo stesso Freddie Mercury, poteva ed era in grado di interpretare, specie dal vivo.
E per quanto ci si possa sforzare di trovare del buono in tutto ciò che continua ad essere propinato al grande pubblico con raccolte, live, remaster e inediti che giravano in realtà in rete da anni, la lezione più grande sta invece proprio nell’assenza, nella mancanza di una delle figure comunque più genuine e trasparenti che il mondo della musica (direi anche dell’arte) c’ha mai regalato: così, come il buon Freddie si sforzava di rimanere in piedi poggiando su un fermo dietro la sua schiena nel video di “These Are The Days Of Our Lives”) a causa di un piede finito ormai in cancrena, allo stesso modo – non avendo potuto terminare le parti vocali del brano “Mother Love” (l’ultimo mai registrato), ci stava in realtà suggerendo che la fine dei Queen era e sarebbe dovuta rimanere un cerchio ancora aperto.