Ci sono foto e foto.
C’è quella, tristemente nota, del piccolo Aylan che sembra aver spezzato il cuore anche alle fredde sensibilità dei leader europei. E poi ci sono quelle come questa che indica una
novità politica. I
migranti che prendono parola, che si mettono in mostra come soggetti in carne e ossa e fuggono dalla rappresentazione disperata e disperante che finora li ha riguardati.
Si mettono in mostra mettendosi in
marcia, con una
bandiera dell’Europa come simbolo, in cerca del loro futuro migliore, in grado di sfidare le regole restrittive della Ue, incapace di tenere il passo con questa domanda politica.
Per la prima volta, da quando l’emergenza ha invaso coste, territori e schermi televisivi, la scena è ripresa da un’altra angolazione. E oltre il punto di vista dei governi, dei razzisti nostrani o di chi esprime un messaggio caritatevole, ecco il punto di vista degli altri, di “loro”, di quelli che dovrebbero, secondo molti, “starsene a casa loro” e che spesso una casa non ce l’hanno più e un futuro invece lo desiderano ancora.
La foto del piccolo Aylan ha contribuito a cambiare la prospettiva
come ha scritto bene Stefano Feltri. Una constatazione dolorosa, indegna per certi versi. La compassione però, specialmente se confinata nell’arco di 48 ore, non basta. L’azione diretta dei migranti e una iniziativa politica di chi non vuole lasciare libero sfogo al
razzismo delle pance impaurite, è l’unica che però può mutare i rapporti e lo scontro in atto.
Perché di uno scontro si tratta. Tra chi, disperato e in fuga da fame e guerra, cerca uno sprazzo per sé e i propri figli e chi ha paura di perdere quel poco che ha, di trovarsi improvvisamente circondato da profughi infelici scoprendo la propria infelicità o la propria stessa miseria.
Una soluzione immediata del problema che squarcia l’Europa non esiste. Esiste solo il problema e di fronte alla realtà di un mondo in cui le forze vive si riequilibrano, come nei travasi d’acqua, spostandosi da una parte all’altra, si possono scegliere due strade.
Quella della rimozione, respingendo in mare chi cerca aiuto, accampando presunti diritti di nazionalità e difendendo le proprie coste, le proprie città, i propri quartieri, le proprie case e via così fino a recintare la propria stanza. E’ una risposta diffusa, sempre più ampia, dettata dalla paura e che ha, però, come unico sbocco la guerra civile. Questa è la vera responsabilità di Matteo Salvini e dei razzisti (occorre usare le parole giuste) del momento. Proporre per il futuro un clima di guerra strisciante, già visibile nel costante linguaggio sprezzante e violento, nel tono arrogante e incivile (mandiamo le ruspe), nello sfruttamento di paure ancestrali e di dolori improvvisi. Come ha ben scritto Pino Corrias sul Fatto, in assenza di idee si utilizzano i cadaveri.
L’altra strada consiste nel guardare in faccia il problema con gli occhi di chi scappa perché quegli occhi potrebbero sempre essere i nostri o quelli, domani, dei nostri figli. Con il volto riverso del piccolo Aylan, con la forza gentile di chi chiede aiuto. Guardare in faccia il problema sapendo che è un problema del pianeta intero e che la sua radice sta in ingiustizie profonde, in guerre troppo dimenticate oppure rimosse, come quella siriana, nelle storture del mercato del lavoro, nelle iniquità del capitalismo globale. Guardare il problema significa guardare come è fatto veramente il mondo, come è governato, come siamo fatti noi in questo frangente.
La foto dei migranti che marciano con dignità lungo l’autostrada significa questo: rappresentare il problema per quello che è, per una questione politica in cui ci sono da un lato uomini e donne che chiedono solo di vivere in pace e dall’altro coloro che impediscono loro di farlo. In fondo, ci riguarda tutti.