Ieri sera un’amica settantenne lamentava che giornali e telegiornali ci bombardano solo di brutte (bruttissime) notizie e di gossip: “Ti fanno passare la voglia di comprare i giornali”. Come darle torto. Eppure ogni giorno contiene sì rabbie e disperazioni, ma anche gioie ed orgogli. Sono trascorsi cinque anni dall’omicidio di Angelo Vassallo, “sindaco pescatore” di Pollica. Doveroso ricordarne l’esempio e il sorriso, anche se ci costa una lacrima in più. Però oggi potremmo (dovremmo?) anche festeggiare il compleanno virtuale del magistrato Antonino Caponnetto, che avrebbe compiuto 95 anni: chissà se qualche direttore di testata ricorderà a lettori e telespettatori che, in mezzo a tante disgrazie, l’Italia ha avuto la fortuna e l’onore di poter contare sul contributo di uomini così grandi.
Nella prefazione a “Schegge contro la democrazia”, che scrissi insieme alla giornalista d’inchiesta Antonella Beccaria in occasione del 30° anniversario del 2 agosto 1980, il magistrato in pensione Claudio Nunziata ammoniva così i pochi concittadini che quel libro lo avrebbero letto: «Al carattere eversivo per la democrazia che oggi assume il tentativo di monopolizzare e condizionare l’informazione con il segreto, la manipolazione e l’imbonimento, è possibile rispondere con la portata rivoluzionaria della continua ed instancabile ricerca della verità». Una ricerca che, dalla strage di Piazza Fontana in poi, pochi inquirenti, giornalisti, intellettuali – e molti familiari delle vittime – hanno intrapreso con coraggio, mettendo a rischio la carriera e la vita. Nel caso dei familiari delle vittime e dei sopravvissuti ad essere messo in gioco, pubblicamente, è il dolore. Un fuoco interiore che nemmeno la verità poteva e potrà spegnere, ma che le impunità e i silenzi hanno costantemente e colpevolmente ravvivato. Una ferita insanabile che, in parte, può trovare sollievo nella fraternità e nell’impegno comune di chi ha avuto la condanna di condividere la condizione umana di parente o amico dei caduti. Un ergastolo dell’anima. Fine pena: mai.
Dicevo della fraternità tra parenti di vittime. Benedetta Tobagi, autrice di “Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita” – pubblicato da Einaudi nel 2013, due anni prima di questa storica sentenza – può aiutarci a comprendere di cosa sto parlando. «L’apertura dell’ultimo processo di Brescia, nel gennaio del 2009, era stata affidata alla testimonianza di Manlio [Milani], che ripercorreva il racconto della mattina del 28 maggio [1974], fino all’istante della fotografia in cui tiene Livia [la giovane moglie] tra le braccia. “Lei ebbe una sorta di respiro, – ricorda, – e cominciai a gridare che probabilmente era ancora viva, chiesi aiuto. In quel momento mi dimenticai completamente degli altri, egoisticamente pensavo solo a lei”. Nell’aula non vola una mosca. “Poi arrivarono le ambulanze, caricarono lei e anche me, e andammo insieme in ospedale”. Ma Livia è già morta. (…) Forza le emozioni dentro il lessico adatto a un tribunale. “In quel momento iniziai a vivere una sorta di senso di colpa. Cominciai cioè a pensare egoisticamente perché doveva essere stata colpita proprio Livia, perché proprio questi nostri amici, perché anche io non potevo essere colpito insieme a loro. Cosa significava questa mia sopravvivenza rispetto a loro. Perché lei, loro, e non io? Perché io? Perchè?».
Ancora Benedetta – nomen omen – ci aiuta a comprendere il senso delle parole malvagità ed ipocrisia. «Penetrare fino in fondo il labirinto delle eventuali responsabilità dirette degli uomini in cui si è incarnato il potere democristiano è impossibile. Si finisce sulle sabbie mobili. Parlando davanti alla Commissione stragi, Arnaldo Forlani evoca in maniera apologetica la pesante dipendenza funzionale che legava i servizi italiani a quelli statunitensi nel quadro dell’alleanza atlantica ai tempi della guerra fredda. Davanti allo stesso consesso, nel 1997, Taviani tronca ogni riflessione sulle responsabilità della classe di governo di cui fece parte con un argomento basato su una fallacia: “Si può veramente immaginare che politici di primo piano siano stati sponsorizzatori di stragi? No, non ne erano capaci, non solo moralmente, ma neppure caratterialmente”. (…) Da politico navigato, sceglie attentamente le parole per alterare il piano del discorso. Una vera e propria “sponsorizzazione” è assai facile da escludere, tanto più in mancanza di prove. Ben più difficile, e fecondo, sarebbe stato sollevare il problema di un’eventuale strumentalizzazione. Si può usare a proprio vantaggio anche qualcosa che non si è ordinato. Qualcosa che si è lasciato accadere, senza prendere misure adeguate per prevenirlo o bloccarlo. A bruciare sono le omissioni, le collusioni più vigliacche e sottili. Non aver fermato, bloccato, punito, non è anche questo una colpa? Sotto il profilo politico e morale, lo è di sicuro»
Il tempo, spiace constatarlo, quasi mai è galantuomo. Ciò nonostante questa sentenza ci rammenta i nostri doveri, oltre che i nostri diritti: corre l’obbligo di restare in attesa, non passivamente, di altre verità. A volte sconosciute, troppo spesso occultate. Bisogna voler sapere – e, poi, dovremo voler scrivere e pronunciare – i nomi dei mandanti della strage alla stazione di Bologna, degli esecutori e dei mandanti della strage sul treno Italicus, ecc. ecc. Perché la verità è, e sarà sempre, una buona notizia.