Durante le proteste si barricarono con gli operai nelle gallerie e uno di loro provò a tagliarsi le vene in diretta tv ma secondo i pm prendevano soldi dall'azienda. La procura di Cagliari indaga per truffa ai danni dello Stato
Nella miniera di carbone qualcuno aveva trovato un filone d’oro. Come i tre sindacalisti della Carbosulcis – l’impianto estrattivo di Nuraxi Figus (Sulcis) – che, tra proteste eclatanti e tentati suicidi in difesa del lavoro, avrebbero ricevuto stipendi da dirigenti nonostante una qualifica decisamente più modesta. Grazie a una serie di indennità e rimborsi non dovuti Giancarlo Sau (Cgil), Luigi Marotto (Cisl) e Stefano Meletti (Uil) sarebbero riusciti a ottenere entrate mensili gonfiate, ora al vaglio della procura di Cagliari che indaga per truffa ai danni dello Stato. Voci in busta paga che avrebbero anche consentito a Sau e Marotto di arrivare prima e meglio alla pensione, un miraggio sognato da tanti minatori che da anni vivono nel timore che la Carbosulcis – partecipata al 100 per cento dalla Regione Sardegna e ogni anno in perdita per milioni di euro – chiuda definitivamente i battenti. Mentre Cisl e Uil tacciono, la Cgil, che un anno fa ha rinnovato tutta la sua Rsu, ha annunciato che si costituirà parte civile.
Una storia vicina, per geografia e contorni, a quella delle lavoratrici Igea le cui barricate sottoterra avevano raccolto molte simpatie prima che un’inchiesta, con oltre 60 indagati, scoperchiasse un presunto giro di ruberie, appalti truccati e voti di scambio. Sullo sfondo – anche in questo caso – le miniere, una società foraggiata interamente dalla Regione e il vessillo dell’occupazione sbandierato nella stessa disastrata zona della Sardegna. Così si configura un “sistema Sulcis”, con la miniera già al centro di inchieste per bandi assegnati senza gare e costosi macchinari mai entrati in funzione.
I nomi dei sindacalisti, finiti nel fascicolo della procura assieme ad altri dipendenti Carbosulcis, sorprendono soprattutto per la notorietà raggiunta negli anni scorsi con le proteste per difendere la miniera. Dopo aver ingoiato oltre 400 milioni di euro dal 1998 al 2010, era finita nel mirino dell’Unione europea.
Meletti, durante l’occupazione delle gallerie dell’estate 2012, aveva cercato di tagliarsi le vene in favore di telecamera. Prima di essere fermato dai colleghi, aveva gridato: “È questo che dobbiamo fare, ci dobbiamo tagliare?”. E Sau, oggi coindagato, spiegò ai cronisti che nel collega autolesionista si incarnava l’esasperazione di tutti. Sarà ora l’inchiesta del pm Marco Cocco a stabilire se quelle battaglie siano state una sceneggiata per coprire la truffa ai danni dello Stato. Già tre anni fa qualche ombra sulla genuinità di quelle rivendicazioni era stata gettata da alcune lettere di minacce spedite da una mano rimasta anonima, che accusava di “intrallazzi” proprio Sau, Marotto e Meletti definiti “i tre porcellini” per la loro linea morbida con i vertici dell’impianto. E anche l’ufficio a loro riservato dall’azienda era sembrato a molti un privilegio, alimentando il clima di sospetti e dividendo il fronte sindacale. L’attenzione degli inquirenti sembra destinata a concentrarsi proprio sul ruolo degli indagati e sull’eventuale tornaconto per chi garantiva gli stipendi lievitati.
Un brutto film e in più già visto: quanto emerso sino ad ora ricorda da vicino lo scandalo Igea, una società nata per occuparsi del recupero dell’imponente patrimonio minerario del Sulcis. Dopo robuste iniezioni di denaro pubblico si era avviata al declino senza aver mai bonificato nulla. E proprio per scongiurare la perdita del posto di lavoro, nello scorso novembre, 37 lavoratrici Igea avevano occupato una vecchia galleria. La grande solidarietà per la coraggiosa protesta femminile era stata però subito spazzata via dalle carte di un’indagine dei carabinieri, in cui tre di esse risultavano coinvolte: una fitta trama di appalti truccati e voto di scambio che in cinque anni avrebbe bruciato circa 600 milioni di euro.
Particolari eclatanti: preziosi frammenti minerari regalati ad ‘amici’ importanti, cimeli delle miniere trasformati in esclusivi arredi da giardino in cambio di un centinaio di preferenze alle imminenti elezioni, gasolio dei tosaerba aziendali usato per fare il pieno all’amante di un sindacalista che la faceva da padrone. La quale amante, sempre stando alle indagini, firmava la presenza in azienda per poi andare dal parrucchiere, prima di murarsi in galleria per chiedere di rilanciare l’Igea. Il tutto condito ovviamente dal coinvolgimento di numerosi politici locali coinvolti, il più noto dei quali è il leader isolano dell’allora Udc Giorgio Oppi.
di Maddalena Brunetti
da il Fatto Quotidiano del 4 settembre 2015