Il primo con l’istituto del distacco a costo zero, cioè con i contributi a carico dell’amministrazione (o azienda pubblica) dove “il rappresentante dei lavoratori” presta servizio, per lo più nel vasto settore della Pubblica amministrazione, nella sanità o nelle aziende pubbliche e private concessionarie di servizi pubblici. La legge 300/70 (Statuto dei lavoratori) concede, ad ogni lavoratore, un numero di ore di permesso annuo per poter esercitare le proprie libertà sindacali (diritto di assemblea). In tal modo in ogni azienda si determina un “monte ore” che non sempre è utilizzato appieno: con accordi interni, soprattutto nelle grandi aziende o nel pubblico impiego, queste ore non utilizzate sono fruite con distacchi retribuiti a totale carico dell’azienda. Il lavoratore distaccato presso un sindacato di fatto è sempre dipendente dell’azienda, che ne paga lo stipendio e i relativi contributi anche in assenza di prestazione lavorativa, mantenendo tutti gli istituti di progresso di carriera. Così ad esempio un medico ottiene il distacco sindacale all’età di 30 anni e la sua carriera previdenziale va avanti senza posare piede in un ospedale per trovarsi a fine corsa con la stessa prestazione pensionistica di un suo collega nel frattempo divenuto primario.
L’altro modo, proprio del settore privato, in virtù dell’accredito della contribuzione figurativa previsto dalla legge 300. La contribuzione non è versata da chicchessia. Ma se per caso qualcuno volesse mettere mano al portamonete (il distaccato e/o l’organizzazione sindacale di appartenenza) e versare qualcosa all’Inps aumenterebbe, per effetto della legge Treu del 1996, la base di calcolo della pensione.
In altri termini stiamo parlando di provvidenze che hanno senso se gestite con criteri di equità e con un forte senso etico ma che ora, alla luce dei fatti, suonano come offesa al sentire comune che ormai include nella categoria di “casta” tutti i sindacalisti di professione.
Da una parte infatti queste norme drenano risorse dalle casse pubbliche. Un giro di vite non risolverà certo il problema del deficit pensionistico, però un aiutino per il futuro lo può dare di sicuro. Dall’altra però danno un colpo mortale alla rappresentatività, ovvero ad un certo modo di fare sindacato. Quello cioè in balia delle spinte corporative e che ha lasciato per strada, quasi fosse un pesante fardello, i suoi valori fondanti, vale a dire l’equità, solidarietà e confederalità. Abbandonata la “sua” rotta il bastimento è presto divenuto zattera alla deriva che si trova, grazie alla sua dirigenza, ampiamente delegittimato dalla società. Una traiettoria che quasi di sicuro porterà a cozzare contro gli scogli e ad un naufragio senza rimpianti.
Tempo per correzione per fortuna ne è rimasto, anche se non molto. Provando a disegnare su una ideale carta nautica un percorso questo non può che passare per la denuncia e la richiesta unilaterale da parte di tutte le organizzazione sindacali di abolizione questi privilegi ormai al limite dello scandalo. Questo anche per anticipare la prossima mossa di Boeri il quale quasi di sicuro tirerà fuori dall’armadio un dossier sugli effetti economici della della legge Mosca degli anni ‘80, ovvero di quella norma che ha graziosamente concesso a politici e sindacalisti di regolarizzare anche lunghi periodi scoperti di contribuzione sulla base di una semplice dichiarazione di parte (e con versamenti contributivi ridicoli). E poi, cosa più importante, che il sindacato si occupi della tutela dei lavoratori pensando ai disoccupati e soprattutto dei precari e non solo di chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto fino al momento della pensione. E che la leadership passi dagli over 60 (che hanno già dato e soprattutto male) ai trentenni, ovvero di coloro che anagraficamente appartengono alla generazione che dovrà versare i contributi all’Inps.
Altre possibilità non se ne vedono, pena la sparizione dal radar della società italiana delle organizzazioni sindacali dei lavoratori (ma anche dei datori di lavoro).