Domenica 30 agosto, alle ore 17:30, su Raidue è andato in onda, per circa mezz’ora, un programma dal titolo “I signori del vino”: un programma, peraltro ben fatto, incentrato sul distretto vinicolo del Chianti (gli ascolti sono stati piuttosto scarsi, 4,8% di share e 493mila ascoltatori). Il documentario segue il filone dei tanti programmi che illustrano località turistiche o distretti agro-alimentari. Un genere quindi utile a far conoscere le cosiddette eccellenze italiane. Lascia perplesso però l’eccesso di pubblicità, l’esposizione marcata di marchi (forse necessari per il racconto). È una nuova forma di commistione fra pubblicità e programmi veri e propri, una sorta di redazionali televisivi, dove i secondi sono strumentali alle esigenze degli sponsor? Questi programmi hanno finalità commerciali? Già adesso la programmazione delle reti è fatta, più che dai loro direttori, dalle società di format, ora si aggiungono anche i direttori commerciali?
Prendiamo spunto dal programma citato, del quale non conosciamo i dettagli, per illustrare le modifiche che la crisi della pubblicità sta causando alla comunicazione.
La pubblicità è una sorta di simbolo dell’economia di mercato, delle libertà. Chi ha una certa età sarà sicuramente rimasto colpito dall’assenza di cartelloni pubblicitari nei paesi dell’Est comunista. E proprio la pubblicità è la risorsa principale che, da sempre, ha finanziato i mezzi di comunicazione di massa e quindi è indirettamente la fonte alla quale si alimentano le libertà, che hanno nei mezzi di comunicazione il principale strumento di propagazione.
Il meccanismo ha sempre funzionato al meglio.
Le aziende, con la pubblicità, hanno la possibilità di “farsi conoscere” e, nell’ipotesi migliore, di condizionare le scelte dei consumatori. Per i mezzi di comunicazione, la pubblicità è lo strumento che permette loro di raggiungere le maggiori diffusioni proprio per il fatto di offrire un servizio (apparentemente) gratuito. Per gli utenti dei media, la pubblicità può essere un’informazione utile per meglio ponderare gli acquisti, oppure un “piccolo” (per molti) sopportabile “fastidio” ampiamente ripagato dal fatto di consumare i mezzi di comunicazione a prezzi più bassi (nulli per le Tv e le radio commerciali) che non si avrebbero nel caso non vi fosse la pubblicità.
Il rapporto fra i mezzi di comunicazione e gli inserzionisti sono sempre stati collaborativi: finché la pubblicità era un mercato in espansione, gli sponsor, anche perché numerosi, non arrivavano a incidere più di tanto sulle scelte editoriali. La situazione sta cambiando ora con la crisi del mercato: il peso degli sponsor è diventato preponderante, arrivando a determinare le scelte editoriali.
Anche nel primo semestre dell’anno in corso, il mercato dell’area classica registra un -2,8% rispetto allo scorso anno. La stampa continua a crollare (-8%); la Tv registra -3% a causa anche dei mondiali di calcio dell’anno precedente; la radio è l’unico mezzo in risalita (+8%), mentre Internet ha ancora difficoltà a decollare (-3%)
La crisi del mercato dell’advertising risale al 2008, in gran parte causata dalla crisi economica e dai cali dei consumi delle famiglie, ma anche dai mutamenti della strategia di comunicazione che tende ora a privilegiare canali diversi dalla classica pubblicità. La televisione è il mezzo che cala di meno, al punto da aumentare la propria quota di mercato, mentre la stampa subisce una vera e propria débacle.
Quando pochi sponsor (per inciso, stupisce l’aumento della spesa pubblicitaria della Pubblica amministrazione) possono decidere le sorti delle imprese media, è evidente quanto siano quest’ultime dipendenti.
La pubblicità sta “assorbendo” la comunicazione, sta ridimensionando quel che resta dell’informazione libera? Non siamo arrivati a questo punto, non siamo ancora a una Tv fatta in prevalenza da redazionali, di programmi-pubblicitari; il rischio che ci si possa arrivare è però ben presente.
Molto dipende dall’autorevolezza degli editori e dei direttori delle reti e delle testate. Anche Murakami cita spesso noti marchi ma ciò non inficia di certo la grandezza dei suoi libri.