La scuola italiana guarda sempre più a Oriente. Se al liceo “Tito Livio” di Milano da quest’anno si insegneranno alcune materie in inglese, in 150 istituti di secondo grado da qualche anno si impara il cinese–mandarino. A fare il bilancio dell’offerta formativa in lingua cinese ci hanno pensato il ministero dell’Istruzione, il dipartimento di Studi orientali della “Sapienza” e l’Istituto Confucio.
In Italia 4mila studenti degli istituti commerciali, degli indirizzi di geometria e ragioneria e dei licei internazionali parlano e scrivono la lingua utilizzata da 900 milioni di persone al mondo. Una scelta dettata dal fatto che il cinese facilita l’ingresso nel mondo del lavoro sia all’estero che in Italia. Un investimento fatto soprattutto al Nord: a guidare la classifica delle scuole dov’è maggiormente diffuso lo studio del cinese è la Lombardia con 34 sedi. Segue la che insegnano la lingua di Mao, meno in Veneto dove sono diciassette.
Anche i piemontesi hanno un occhio di riguardo nei confronti del mandarino visto che viene praticato in dieci istituti così come in Toscana. Stupisce che nella Capitale, luogo di scambi internazionali e di grande turismo, siano solo cinque le scuole interessate. Pochissime anche in Friuli e Marche dove si contano sulle dita di una mano. Qualche segnale arriva dal profondo Sud anche se il Meridione è in ritardo: in Puglia, Sicilia e Campania si è manifestato un certo interesse per l’idioma orientale.
Dall’altro canto si tratta di un processo di internazionalizzazione che si sta consolidando nel sistema scolastico italiano. Al liceo linguistico “Cairoli” di Pavia, per esempio, lo studio del cinese è diventata un’esperienza: dal viaggio-studio alla didattica della lingua attraverso la didattica della letteratura, del pensiero e della cultura ai confronti linguistici e culturali alla lettura della stampa sulla Cina fino alle relazioni con le istituzioni cinesi presenti sul territorio.
Al convitto Vittorio Emanuele II a Roma si insegna persino storia in lingua cinese: il modello di riferimento, solo in parte assimilabile alla pratica del Clil (Content and Language Integrated Learning), intende, come quello, promuovere attraverso contenuti disciplinari specifici la crescita quantitativa e qualitativa della lingua straniera, ma rispetto ad esso presenta delle differenze specifiche data l’assoluta novità e unicità che lo caratterizza nell’attuale panorama scolastico italiano ed europeo.
Pratiche che stanno per diventare un punto di riferimento: ogni anno in Europa l’insegnamento del cinese viene inserito nei piani di studio di un numero crescente di corsi universitari e curricula scolastici, ma se per le lingue europee esiste già un quadro di riferimento che stabilisca quali debbano essere le competenze da acquisire per ogni livello e i criteri per attestarle, non è così per il cinese. “Oggi però non è più concepibile – hanno spiegato i docenti interessati – che ogni Paese, ogni singola istituzione proceda indipendentemente dalle altre poiché questo finisce col nuocere alla mobilità studentesca in primis. Abbiamo posto le basi per la creazione di un quadro di riferimento per la didattica del cinese in Europa, fissando così uno standard che in futuro influenzerà inevitabilmente l’insegnamento del cinese e porterà ad una riforma dei manuali oggi in uso”.