Quando Vera Casamonica è comparsa da Vespa è scattato l’effetto deja vu. E infatti, non appena ha cominciato a parlare, abbiamo visto in lei Livia, la mamma di Tony Soprano. La terribile mamma proveniente da Avellino, mai sfiorata da indagini e condanne e tuttavia ben consapevole dei machiavellismi (“metter pace” fra rivali, diffidare di tutti, “far fare” più che fare, etc) e vestale ideologica della stirpe compaesana che si spalleggia, ma anche si tradisce secondo la logica del Potere di fatto. Quello che nasce ed esiste fuori dai poteri di diritto e di carta al cui riparo, e con i nostri limiti, campiamo noi che siamo “individui” e non “affiliati” né “parenti”, né conterranei di alcuno.
Gli sceneggiatori del telefilm sanno che quel personaggio cattura l’attenzione degli spettatori perché li conduce per mano in una realtà materiale e mentale che essi non frequentano, e che è mostrata come concreta e, a modo suo, “normale”. Abitata da eroi (o se preferite antieroi, ma ai fini drammaturgici è lo stesso) del nostro tempo. E che dunque funge da metafora eroicizzante della più normale quotidianità di qualsiasi spettatore.
Tale e quale a mamma Livia è apparsa Vera Casamonica nella poltrona da Vespa. Il quale probabilmente pensava solo di fare un bel colpo di colore e di rastrellare facile share (ha rimediato l’8% al Nord e il 16% al Sud). Ma, ammesso che non l’avesse per strani fini pianificata, la situazione gli è evidentemente sfuggita di mano. Aveva infatti un bel contestare l’esibizione di potenza del funeralone, i soldi a palate, l’evasione totale (“beh, sì, quella c’è” annuiva lo stesso avvocato della famiglia, suscitando nell’audience sospiri di empatica invidia).
Né le cose potevano andare diversamente perché a Porta a Porta era stata convocata la mamma Livia Soprano, che mai è stata indagata, con la pretesa di contestarle le azioni di Tony? La risposta non poteva che essere “nulla saccio”, e Bruno anziché incalzante pareva di conseguenza petulante. Mentre, andando al sodo, nulla intaccava il doppio messaggio costituito in sé stesso dalla figura di Vera e dalla sua estetica burina. Il primo, destinato a chi doveva sentirsene coinvolto, era: “se non vi è bastato il funerale al suono de’ Il Padrino, eccoci qua, addirittura nella Terza Camera. E datevi una regolata”. Il secondo, più generalista e rivolto agli spettatori in quanto popolo, era: ”IO sono come voi. E voi, al posto mio, fareste esattamente quello che io faccio. Altro che le bubbole di lor signori” (e al riguardo non è mancato il doveroso accenno al tema anticasta).
Vespa ha allestito insomma, forse a sua insaputa, l’ennesimo episodio del consueto scontro fra chi comanda e chi si arrangia. Che sarebbe poi la versione trash del berlusconismo. A rompere l’incanto un mezzo ci sarebbe stato: dare conto, con una vera inchiesta e non con servizi sbrigativi, della origine e della composizione del patrimonio della famigliona. A partire –come ha osservato Sabella, intervenuto alla puntata riparatoria di ieri – da chi, e cioè le vittime, è stato spremuto per accumularlo. Senza il controcanto delle vittime non esistono infatti storie di famiglie criminali, ma di dinastie regnanti, i cui delitti sono ormai diluiti dalla Storia.
A proposito, pare che anche i Medici, prima di prendersi Firenze allevassero cavalli. In Mugello.