Siriani e iracheni tutti profughi, africani tutti migranti economici? Non è così. Il continente africano è composto da 54 paesi, molti dei quali attraversano crisi profonde, umanitarie, politiche o nella sfera dei diritti umani. Ecco un elenco, necessariamente riassuntivo e semplificato, dei principali Paesi da cui si scappa per arrivare in Europa e delle ragioni che spingono alla fuga.
Somalia, Libia e i Paesi in guerra
In cima alla lista, c’è la Somalia. Dopo il crollo del regime di Siad Barre, nel 1991, è piombata nel caos, trasformandosi in un Paese senza Stato, in cui si sono avvicendati governi deboli incapaci di mantenere il controllo del territorio. Una guerra civile, di cui in tanti hanno approfittato (ricordate le scorie tossiche e nucleari che costarono la vita a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin?), poi la pirateria (ora quasi del tutto sconfitta), l’estremismo che è passato dalle Corti islamiche agli Al Shabaab, che oggi, respinti nella zona a sud del paese, sconfinano sempre più spesso in Kenya. La crisi più acuta è passata, ma la situazione resta difficilissima, gli attentati nella capitale continuano a mietere vittime e tutta l’intellighentia e la classe media del paese è fuggita tra Europa e Nord America. Chi scappa ora ha certamente diritto all’asilo. E ha un nucleo familiare a cui ricongiungersi. La diaspora somala è tra le più nutrite al mondo.
Ma la Somalia disastrata di cui parliamo è la parte sud del paese, dove si trova la capitale Mogadiscio. Per intenderci, l’ex colonia italiana. La parte nord, quella che fu colonia inglese, vive una relativa normalità: il Puntland e il Somaliland, dichiaratisi autonomi dalla capitale, anche se non riconosciuti dalla comunità internazionale, sono paesi relativamente tranquilli. Relativamente: tra le due regioni, una terza si è di recente dichiarata indipendente, il Khatumo State, generando scontri al confine e un contenzioso tutt’ora aperto.
La Libia del post Gheddafi è un altro paese in guerra, con due governi in carica e zone al di fuori di ogni controllo statuale, cui si aggiunge la porzione di territorio sotto il controllo di ISIS. Punto di raccolta delle rotte migratorie che convergono sia dall’Africa subsahariana che dal Medio Oriente, da qui partono i barconi che affollano da tempo il mar Mediterraneo. Curiosamente, però, i libici non partono. Non verso l’Europa, almeno. Sono in tanti ad aver varcato i confini con la Tunisia e l’Egitto, in fuga temporanea. Ma sui barconi no, non arrivano. Forse perché sono i primi a sapere quanto alti siano i rischi.
Eritrea, Gambia e le altre dittature
In tanti fuggono da paesi schiacciati da dittature spietate. In primis, l’Eritrea, altra ex colonia italiana, da cui fuggono tutti quelli che possono, in particolare i giovani. Sono spesso loro ad affollare i barconi, insieme ai somali. Scappano da un dittatore, Isaias Afewerki, al potere dal 1993, che opprime ogni spazio di libertà personale, che obbliga ragazze e ragazzi al compimento dei 18 anni ad un servizio militare infinito, che appena avverte aria di dissenso sbatte gli oppositori reali o presunti in carceri da cui è difficile uscire vivi. Tutto è in mano al governo. Anche le vite delle persone. Non tanto diversa è la situazione del Gambia, piccola striscia di terra incuneata nel Senegal, paese anglofono dominato da Yahya Jammeh, un padre-padrone che non ammette dissenso. Al potere con un golpe dal 1994, soffoca ogni libertà personale e reprime il dissenso con veri e propri squadroni della morte. Situazione aggravatasi dopo il tentativo di colpo di stato dello scorso dicembre, a cui ha fatto seguito un’ulteriore ondata repressiva, fatta di arresti e torture. A luglio, il presidente ha annunciato l’aumento dei reati punibili con la pena di morte. Per questo il Gambia è il più piccolo paese africano e ha solo due milioni di abitanti, ma attualmente è il 3° paese di provenienza dei richiedenti asilo.
Burundi, Guinea e i regimi autoritari
Molti altri sono i regimi autoritari in Africa, ma non tutti generano flussi migratori verso l’Europa, anche se chi ci prova ottiene in genere asilo. Citiamo il caso del Burundi, situazione che negli ultimi mesi è rapidamente degenerata: il presidente uscente ha violato la costituzione facendosi votare per un terzo mandato, nonostante mesi di proteste, e ora il paese è in bilico fra la dittatura e la guerra civile. Sono circa 150mila i burundesi fuggiti da aprile nei confinanti Rwanda, Congo e Tanzania. Solo una delle crisi politiche che si prospettano il prossimo anno in Africa centrale, dove ad oggi ci sono altri tre presidenti (Rwanda, Congo Popolare e Congo Democratico) pronti a emulare il burundese Nkurunziza e modificare la costituzione per farsi votare ancora, innescando una dinamica molto pericolosa per tutta la regione, che può potenzialmente innescare scontri e ingenerare – tra l’altro – nuove ondate di profughi. Arrivi che invece continuano da altri paesi dove non si può parlare di vere dittature, ma di regimi non democratici, in genere frutto di golpe, che non rispettano i diritti umani. È il caso della Guinea e della Guinea Bissau, da cui in tanti approdano sulle nostre coste.
Costa d’Avorio e i Paesi post-conflitto
Vari sono i paesi che escono da conflitti sanguinosi. Alcuni di questi attraversano la fase dei regolamenti di conti. Ad esempio, la Costa d’Avorio, paese ora pacificato, ma il cui ex capo di stato è sotto processo alla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Chi era dalla sua parte ora lascia il paese, per sfuggire a possibili ostracizzazioni e vendette.
Nigeria, Ciad, Camerun e Niger infestati da Boko Haram
Esistono Boko Haram e gli Al Shabaab, ma anche altri gruppi (quasi tutti di matrice islamica) che infestano intere regioni, in particolare nella zona del Sahel. Gruppi feroci, che radono al suolo vite, tradizioni, cultura. Boko Haram e la follia del suo capo Abubakar Shekau seminano il terrore non solo nel nord della Nigeria, ma ormai anche nel nord del Camerun, nel sudest del Ciad e nel sudovest del Niger, gli Al Shabaab che dalla Somalia terrorizzano sempre più il Kenya (ultima, la strage al campus di Garissa), ma ci sono altri gruppi di cui sentiamo meno parlare ma che non per questo sono meno virulenti: c’è Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico), che dall’Algeria si è spostato in Mali, dove troviamo anche Ansar Eddine che infesta il nord del Paese, cui vanno aggiunti i gruppi armati che rivendicano l’indipendenza del nord del paese, un caos che la missione Onu Minusma fatica a fronteggiare. E tanti sono i maliani che approdano sulle nostre coste, così come i nigeriani, i nigerini e in misura minore i ciadiani e i camerunesi. In questi casi, alle autorità spetta un compito non facile, per discernere chi fugge da una zona di pericolo da chi proviene da zona tranquilla ed è dunque da considerarsi migrante economico. Dalla Nigeria, per esempio, arrivano in tanti, ma non tutti dalle zone sotto la longa manus di Boko Haram.
Migranti economici… forse
Tra i richiedenti asilo compaiono anche altre provenienze: ci sono molti senegalesi e ghanesi, ci sono egiziani, marocchini e tunisini. Tutti miranti economici che tentano la via dell’asilo per ottenere i documenti? Forse. Intanto, anche chi giunge dalla Nigeria o dalla Costa d’Avorio può essere un semplice migrante economico, così come in aumento sono gli africani della classe media che vendono tutto per cercare fortuna da noi. Ma al contrario anche da paesi non in guerra e non oppressi da regimi possono arrivare persone che ottengono asilo o protezione umanitaria. Ad esempio, le minoranze religiose perseguitate o emarginate, o gli omosessuali che in alcuni paesi sono anche puniti col carcere.
Poi ci sono i minori non accompagnati, in gran parte nordafricani: un vero e proprio investimento fatto dalla famiglia, che vende i propri beni per mandare il figlio ragazzino a cercar fortuna.
Situazioni complesse e variegate molto più di quanto sembri, che spiegano tra l’altro (almeno in parte) perché sia così lungo e laborioso il processo di esame delle varie richieste d’asilo. Così come è chiaro che per molte di queste crisi che generano flussi migratori la soluzione non sarebbe tanto umanitaria, quanto politica.