draghi a milano 675

Come mai Draghi, facendo sostanzialmente le stesse cose che Bernanke fece per cinque anni a partire dal 2009, e pompando cifre persino più ingenti di Bernanke nel sistema economico europeo, fa flop? E’ Stefano Feltri a dirlo, proprio in questa sede, assimilando la manovra di Quantitative easing avviata a gennanio dalla Bce nientemeno che a un bazooka monetario. E infatti cos’è, in campo monetario, una manovra di Qe, se non un colpo di bazooka contro il muro di macerie che impedisce all’economia di circolare? Anzi, tanto le cannonate di Bernanke (50/mld di dollari al mese) quanto quelle di Draghi (60/mld di euro al mese) potrebbero persino essere assimilate, per la loro immensa potenza, proprio al micidiale cannone di Navarone, piuttosto che a un piccolo benché efficace bazooka.

Tuttavia alcuni risultati positivi Draghi li sta ottenendo con le sue politiche monetarie, di cui quella del Qe è solo la più visibile, ma non si può certo dimenticare l’efficacia prodotta nel sistema europeo da una altrettanto imponente svalutazione dell’euro sul dollaro (circa il 30% in meno in poco più di 6 mesi).

Benché la crescita economica ottenuta sia tuttora solo nell’ordine di miseri decimali sopra allo zero, tuttavia ciò è sufficiente a far gridare molti illustri commentatori e diversi politici alla fine della crisi. Non è così, però ha comunque ragione Feltri a rilevare il flop di Draghi, perché Feltri si riferisce in particolare all’insuccesso di Draghi nel riportare il tasso di inflazione in Europa al desiderato e programmato 2%. Anch’io citavo l’urgenza e la necessità di far salire l’inflazione (anche più del 2%) già nel mio articolo “Un po’ d’inflazione al giorno toglie la crisi di torno” del dicembre 2013.

E’ importante riagguantare un po’ d’inflazione nel sistema economico, per diversi motivi, per esempio perché con i prezzi in lenta, costante salita (cioè con una inflazione al 2% o poco più) è possibile per le banche centrali fissare i tassi di interesse al di sotto del tasso d’inflazione, con ciò stimolando da un lato la richiesta di credito e dall’altro, per le imprese piu lente nella ripresa, la possibilità di aumentare le paghe mantenendole al di sotto del tasso di inflazione (evitando così riduzioni dell’organico). Quando l‘inflazione è invece a zero o addirittura sotto zero (come era in Europa la scorsa primavera) non c’è spazio per far nulla di questo tipo e, come paventano ora tutti i banchieri centrali, in caso di ricaduta della propria economia in recessione, la leva della riduzione dei tassi per rendere più competitiva la propria economia sarebbe ora del tutto spuntata.

Non è un pericolo solo teorico, è reale, ed è talmente pericoloso che certamente toglie il sonno ai draghi (non di nome ma di fatto) dell’alta finanza.

La necessità di ridurre il debito ha indotto molte grandi economie all’austerity. L’austerity ha prodotto un ciclo deflazionistico con il crollo dei tassi e la recessione, già diventata sostanziale depressione in molti Paesi (specialmente europei, per ora, ma il fenomeno si sta allargando ad altri continenti).

Il guaio grosso è però cominciato quando, seguendo l’esempio di Bernanke, tutti i grandi banchieri centrali del globo industrializzato hanno pensato che, per uscire dal pantano di una economia che per effetto dell’austerity si stava sgonfiando in tutto il mondo, l’unica cosa da fare era svalutare la moneta e avviare operazioni di Quantitative Easing.

L’economia globalizzata ha cominciato così a rincorrersi all’impazzata con questi “strappi” di carattere monetario. Tutte le grandi banche centrali hanno attuato in misura più o meno ampia (e più o meno esplicita) operazioni di Qe a sostegno della propria economia. E naturalmente, per non restare svantaggiati (o nel tentativo di avvantaggiarsi), attuando strategie volte a consentire il deprezzamento della propria moneta sui cambi internazionali.

Dopo il dollaro, che è stato il primo a svalutarsi fino ad oltre il 40% contro l’euro negli anni immediatamente successivi alla grande crisi del 2008, si è finalmente mosso l’euro, che nel 2014 in pochi mesi ha quasi riagguantato la parità col dollaro (attualmente il cambio è 1,11 dollari contro un euro). Ma le altre grandi economie non sono state a guardare e tutte, più o meno, hanno svalutato la propria moneta in un gioco al ribasso senza sosta e senza tregua che ha indotto alcuni commentatori a temere una “sotterranea” guerra delle valute. E naturalmente, se si fanno la guerra le monete forti, con lo Yuan cinese, ultimo arrivato, a dare una scossa che si può definire tutt’altro che di assestamento con una svalutazione di oltre il 3% in pochi giorni, le monete delle economie emergenti non potevano che “seguire l’onda”. Il Brasile, che sconta anche problemi politici interni, ha svalutato già del 30% circa. Il Sud Africa del 12%, la Colombia del 27%, il Niger dell’8%, l’Angola del 18%, il Turkmenistan del 19%, Taiwan del 3%, la Mongolia del 5%.

Appare però evidente, a questo punto, che se tutti usano contemporaneamente la leva monetaria sperando di risolvere il proprio problema, la leva monetaria perde non solo tutta la sua efficacia curativa, ma diventa addirittura un motivo di contagio.

Nel 2008 è arrivata la prima grande correzione a mercati lasciati troppo liberi di gonfiarsi con operazioni finanziarie che in sostanza, invece di creare ricchezza per tutti, creavano bolle destinate a scoppiare.

Nulla di veramente efficace è stato fatto per evitare di ricadere nella stessa trappola. Qualcuno (che conta!) ha probabilmente pensato di poter risolvere questi problemi con i soliti interventi di carattere monetario, ma adesso che anche questi, per effetto di una globalizzazione cresciuta troppo in fretta, risultano inefficaci, i banchieri centrali non sanno più che pesci pigliare per uscire da una spirale depressiva che non riescono più a controllare.

In una situazione di questo tipo non c’è speranza di recuperare l’equilibrio preesistente. L’attuale globalizzazione tende a cancellare le poche regole di uguaglianza esistenti, invece che allargarle a chi non le ha ancora. Saranno perciò le regole della jungla economico-finanziaria a prevalere su tutto e su tutti. L’unica speranza è che le grandi potenze riescano, con un ultimo sussulto di orgoglio e di civiltà, a mettersi d’accordo per raggiungere tutti insieme il famoso “atterraggio morbido” post crisi teorizzato da Alan Greenspan all’inizio di questo secolo. Ma lui era un assoluto sostenitore del mercato totalmente libero. Gli è andata bene nel 2001, con la crisi del “tecnologico” ma sta ancora chiedendosi come può essere successo quello che è successo nel 2008.

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