Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. 

Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di  corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto.

È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”.

Quel fascicolo al Csm e i beni dei Rappa
L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga,  ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava.

L’asso piglia tutto dei beni sequestrati e la famiglia Saguto
Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto.  Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro.

Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srl gestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle.  “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso.

La roba dei boss? Un patrimonio da 30 miliardi di euro
Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta.Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina.

È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.

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