Alcuni anni fa, festeggiando nel cortile dell’Università una laurea, la cui tesi era La banda della Magliana, parenti e amici del neolaureato, per celebrare l’occasione, si erano travestiti da personaggi della banda (facilmente riconoscibili Dandi, il Freddo, il Libanese). All’uscita, lo studente è stato accolto da colpi di pistola giocattolo. “E’ per fare un po’ di colore”, si è giustificato il neo dottore. Di una terribile storia criminale, collusione tra politica e camorra, nella testa di questo ragazzo non rimaneva che il colore e la percezione, e non appariva diversa negli improvvisati imitatori degli altri personaggi. I delinquenti erano diventati personaggi, con i loro tic e la loro caratterizzazione a cui il pubblico è affezionato.
I protagonisti di Romanzo criminale, nati dalla penna del giudice Giancarlo De Cataldo, corrispondono, in larga parte, a profili reali. Il punto è che dal romanzo (meritorio) al film (interessante) si è passati alla serie, costruita sì con attenzione, ma dove il reale lato criminale svapora nel legame tra il pubblico e il personaggio. La storia, quella vera, non c’è più, la memoria collettiva è intasata dalle immagini televisive. Romanzo criminale è diventata una saga di esportazione, pronta per generare anche all’estero nuovi stereotipi sulla delinquenza italiana organizzata.
Il pubblico delle serie Romanzo criminale – si potrebbe dire dei romanzi criminali – è un pubblico molto fedele non solo nei numeri, ma nell’indice di permanenza davanti alla puntata.
A fine agosto il funerale di Vittorio Casamonica, con il suo sfarzo kitsch – che anche uno sceneggiatore di Gomorra avrebbe ritenuto eccessivo – rischia di rimanere nella nostra memoria non come sfacciato atto di sfida della criminalità allo Stato, ma come anello di una serialità che fa colore, dove tutt’al più l’aggettivo ridicolo finisce per sostituirsi a quello di criminale.
La scelta di Bruno Vespa di invitare a Porta a porta la figlia e il nipote (incensurati) del boss Casamonica, appartiene a questo deviato ma diffuso senso comune che sostituisce l’essenza criminale con il colore. Se con un “colpo di teatro” di questo genere l’audience è assicurata, come altrettanto lo è il clamore che ne segue e ne garantisce altro ascolto, il contenuto giornalistico è povero, infatti, i due invitati non avevano nulla da dire che già non si sapesse o si prevedesse affermassero. E’ un po’ come realizzare una puntata storica su Benito Mussolini e pretendere che sua nipote Alessandra ne tracci un profilo critico.
Vespa si è difeso dicendo che Enzo Biagi intervistò Michele Sindona e le vittime del finanziere siciliano non erano presenti. Vespa, riguardi allora quell’intervista (per i nostri lettori la riproponiamo dal documentario di Sarah Nicora), apprezzi l’incalzante sobrietà di Biagi e valuti – anche nel segreto della sua stanza- il diverso risultato giornalistico.
Chi riduce le criminalità a folclore si appresta a incamerarne i batteri.