Il cantante di Zocca è ospite d’onore al Lido per presentare il documentario di Fabio Masi che in un’ora racconta la rockstar in dieci inserti/capitoli partendo da una sua sagoma cartonata trasportata su un auto
Quattordici bodyguard lo attorniano fin quasi a cancellarlo, gli altoparlanti sparano a mille Il Blues della chitarra sola, i flash di un migliaio di smartphone illuminano a giorno la sala Darsena che di solito accoglie delegazioni di produzioni indonesiane e coreane. Succede al Lido di Venezia, mostra del cinema numero 72, ospite d’onore Vasco Rossi per presentare Il decalogo di Vasco: il documentario di Fabio Masi che in un’ora condensa il Blasco pensiero in dieci inserti/capitoli partendo da una sagoma cartonata della rockstar trasportata su un auto. E se nel film Vasco si deve come liberare metaforicamente dall’irrigidimento materiale dell’icona a passeggio, al Lido arriva come sempre dondolante, con quell’incedere un po’ instabile e un po’ guascone. Il busto piegato in avanti, una giacca luccicante che fa pendant con le scarpe, altrettanto luccicanti ed argentate con una suola di gomma bianca alta quattro dita, jeans e t-shirt nera, cappello nero catarifrangente e occhialetti scuri, il look del Kom è uno strano miscuglio tra una mirror ball di luci stroboscopiche da discoteca e una performance live su un qualsiasi palco del suo tour.
Vasco è comunque in forma smagliante, alla faccia di tutti quelli che l’avevano dato per morto quattro anni fa quando dovette interrompere i concerti gettando nel panico milioni di fan. Ammiratori adoranti che, a dire il vero, non hanno proprio sfondato il muro del tutto esaurito per questa prima veneziana del documentario, ma che con un calore incessante e urlante per almeno un’ora di dialogo tra lui, Masi e il giornalista Vincenzo Mollica prima della proiezione, hanno scaldato l’atmosfera della Darsena fino a renderla un’appendice di quel continuo dialogo che il cantante di Zocca sembra aver instaurato con loro.
“Chi ci ammazza a noi?”, e il coro dalla sala: “Nessuno!”. “Sono rasato a zero come Marlon Brando in Apocalypse Now”, e il coro: “Sei meglio!”. Vasco la prende larga racconta di come Masi l’abbia convinto a diventare il soggetto recitante del doc: “Sono diventato attore a mia insaputa, in modo inconsapevole”, scherza la rockstar seduta su un trespolo bianco mentre ogni due per tre sorseggia bianchetto da un calicino appoggiato su un tavolo posizionato proprio alle sue spalle. “Masi mi ha seguito dappertutto, anche mentre facevo gli allenamenti”. Già perché il metodo Parazza, un mix di yoga, stretching e ginnastica, che lo ha riportato energicamente ai livelli di venti anni fa è un anche un gioco, ludico, una pratica condivisa, modello social, con i fan: “Stasera Parazza, il mio fisioterapista, che è qui, ha una giacca talmente assurda che l’hanno scambiato per il mio bassista. Questo metodo mi ha aiutato tantissimo per prepararmi al tour, soprattutto per la posizione del guerriero”. Only the strong survive. “La musica è un miracolo che ti tiene su”, spiega Vasco. “Scrivere i testi delle canzoni è anche qualcosa che ti torna indietro. Quella volta che feci un incidente con un camion, l’autista è sceso, mi ha guardato e mi ha detto ‘Te la do io la vita spericolata”. Eccolo il brano primigenio, la luce, il canto epocale da cui nacque la leggenda: “Fu la seconda volta a Sanremo. La prima fu con Vado al massimo andai lì per fare il matto così, pensai, si ricorderanno di me. Ero diversamente lucido (ride ndr), ma avevo idee molto chiare”.
E’ il diario del Blasco pronto a farsi sfogliare, prima che il migliaio di fan veda il documentario: “Ho studiato da rockstar, sapete? Nei primi anni ottanta con tutto il rispetto, perché da loro ho imparato a scrivere canzoni, non era più tempo di cantautori. La gente non aveva più tempo per ascoltare i testi elaborati. ‘Lunga e diritta correva la strada. L’auto veloce correva ecc…’ non andava più, bisognava scrivere in modo più diretto ‘Lunga e diritta correva la strada e sono andato contro il muro!’ ”. Ed è qui che la rockstar, dopo aver accennato qualche strofa di Blues della chitarra sola, chiude lo show con un aneddoto che non dà addito a speculazioni ulteriori sulla sua stoffa da intrattenitore: “Sul palco una rockstar non può distrarsi a fare altro che cantare. Se per esempio si china a raccogliere qualcosa che è caduto per terra deve continuare come niente fosse. Quando cantai Vado al massimo mi ritrovai a fine canzone con il microfono in mano. Era uno di quei tipi quadrati che andavano avvitati sull’asta con fatica. Un gesto che una rockstar non può compiere. Così me lo infilai in tasca per portarlo a quello che veniva dopo di me, che tra l’altro era Christian, ve lo ricordate? (sghignazza ndr). Solo che ad un bel momento il filo finisce e il microfono cade per terra facendo un gran tonfo. Io non mi sono girato. Lì è iniziata la mia vita da rockstar”.