Gli esami a cui il paziente è sottoposto dopo il trattamento di un tumore sono contabilizzate complessivamente per 400 milioni ogni anno, contro i 40 previsti. Colpa soprattutto della prescrizione di esami inutili o inappropriati. E adesso l' Associazione italiana dei medici oncologi lancia la sua proposta per cambiare il modello di cura
La sanità è ancora una giungla di sprechi. Nonostante la mazzata dei tagli. Un dato allarmante è quello delle visite di controllo in oncologia, il cosiddetto follow up, a cui il paziente è sottoposto dopo il trattamento di un tumore. Ogni anno il conto da pagare è uno sproposito: 400 milioni di euro contro i 40 stimati. Cioè spendiamo dieci volte tanto. Il triste bilancio è stato fornito dall’Associazione italiana dei medici oncologi (Aiom), che ieri a Roma ha firmato un patto con la categoria dei medici di base, degli specialisti e dei pazienti, per cambiare il modello di cura, passando dall’ipermedicalizzazione (il follow up intensivo) alla cultura di survivorship care, ossia l’attenzione alla qualità della vita della persona guarita e al suo quadro clinico in generale.
“È il primo in Europa – dichiara Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia dell’Irccs Santa Maria Nuova di Reggio Emilia e presidente nazionale Aiom – Forse solo gli americani hanno attivato strategie simili, ma non hanno un piano organico e sistematico come il nostro, e poi la loro sanità è privata”. L’intesa riguarda il destino di tre milioni di italiani. Il risparmio previsto è di almeno il 30 per cento e può essere reinvestito in terapie innovative. Ma quali sono i motivi delle cifre fuori controllo? Due fondamentalmente. Innanzitutto la prescrizione di esami inutili o inappropriati. “Oggi i pazienti, per capirci, restano in carico allo specialista per un tempo indefinito, oltre dieci anni dalla malattia, quando invece la durata media del monitoraggio è di cinque anni. È in questo arco di tempo infatti che c’è il più alto rischio di recidiva” osserva il presidente Aiom. Prendiamo il cancro alla mammella, il più frequente nel sesso femminile (con 48mila nuovi casi nel 2014 rappresenta il 29 per cento di tutte le neoplasie nelle donne).
“Se il pericolo di sviluppare un altro tumore è basso, è richiesto un follow up leggero. Una mammografia annuale per i cinque anni successivi al trattamento” spiega. La seconda causa invece è la scarsa collaborazione tra oncologo e medico di famiglia, e tra il primo e gli altri specialisti. “Il paziente di solito incontra in tre momenti diversi l’oncologo, il radiologo e il chirurgo – prosegue -. Questo provoca una perdita di tempo e di energie, stress dannoso per il paziente, e magari qualche esame superfluo. Se invece c’è coordinamento e lavoro di squadra non si fanno errori”. Il nuovo metodo di assistenza proposto è urgente proprio perché è basato su risultati reali e tiene conto degli effetti collaterali tardivi della malattia che compromettono la vita sociale e lavorativa della persona. “Va scoraggiato l’utilizzo di procedure non suffragate da evidenza e non suggerite dalle linee guida – sottolinea Gianmauro Numico, direttore dell’Oncologia all’ospedale di Alessandria e promotore insieme a Pinto del documento di consenso -. Inoltre la maggioranza dei pazienti oggi non sviluppa recidive. Per questo è fondamentale che le visite di controllo rispondano ai nuovi bisogni di cure dovuti a invalidità e inabilità, per esempio impotenza, incontinenza, stress emotivo, che la malattia e i trattamenti possono causare. I medici devono insistere di più sui cambiamenti dello stile di vita, i percorsi di riabilitazione, fino al supporto psicologico”. In questo modo si farà meno ricorso all’ospedalizzazione e il sistema sanitario nazionale ne beneficerà. “Non subendo il solito e ingiusto taglio lineare” aggiunge Elvio Russi, a capo dell’associazione italiana di radioterapia oncologica (Airo).
Il percorso di follow up dovrebbe dipendere in particolare da tre fattori: rischio di recidiva della malattia, presenza di altre patologie in corso, età e storia del paziente. A questo punto, il documento d’intesa prevede che, “i pazienti a basso rischio o con comorbidità rilevanti possono essere reindirizzati precocemente al medico di medicina generale”. Quelli “a rischio intermedio possono essere seguiti con un modello sequenziale o di alternanza tra lo specialista e il medico di base”. Mentre chi è ad alto rischio richiede “un maggiore e più continuativo coinvolgimento dello specialista, almeno nei primi anni dalla terapia primaria”. Per evitare il caos, nel testo si suggerisce l’attivazione da parte dei servizi sanitari di “codici di priorità facilitanti”.
Il monitoraggio degli anziani necessita cautele a parte. In generale, se l’attesa di vita è superiore alla prognosi oncologica “è candidabile al follow-up standard”. Chi invece manifesta una “fragilità preclinica” deve avere un percorso è su misura, “al fine di ridurre la ridondanza di esami e il rischio di eventi avversi e di favorire i percorsi riabilitativi”. Nelle circostanze più gravi, in presenza di “fragilità conclamata e aspettativa di vita inferiore alla prognosi oncologica, non suscettibile di trattamenti attivi” gli esami di follow-up vanno evitati.