Storie di ordinaria ingiustizia. Mentre il caso Cucchi pare finalmente riaprirsi, sembra chiudersi definitivamente la carriera di insegnante di Giovanni Scattone. Condannato a cinque anni e quattro mesi per l’omicidio colposo di Marta Russo, con una sentenza spesso citata in letteratura come un caso di scuola di errore giudiziario, Scattone, assistente volontario alla Sapienza all’epoca dei fatti, ha scontato interamente la sua pena ottenendo dalla Cassazione la revoca dell’interdizione dai pubblici uffici. Quindi, dovrebbe essere un uomo libero, con gli stessi diritti di chiunque, più un diritto all’oblio, e quello di rifarsi una vita. Invece – per serietà, coerenza, e altre doti che in casi diversi vengono ritenute motivo di rispetto – ha commesso due errori imperdonabili.
Primo errore: ha voluto seguire sino in fondo la propria vocazione all’insegnamento, scontrandosi così con il pregiudizio, più grave di qualsiasi pena legale, per cui sarebbe diseducativo che un omicida (colposo) – anzi «un assassino», come dice la gente – insegni ai ragazzi.
Secondo errore, più grave ancora: non ha mai voluto ammettere la propria colpevolezza, esponendosi così alla persecuzione da parte della famiglia di Marta: persecuzione forse umanamente comprensibile, ma moralmente e giuridicamente ingiustificabile. Così, dopo anni di supplenze nei licei, tenute con soddisfazione anzitutto dei suoi studenti, e aver ottenuto il posto di ruolo, e aver subito nuovi attacchi, ha deciso di rinunciare all’insegnamento: in queste condizioni, ha dichiarato, gli mancherebbe l’indispensabile serenità.
Ecco, perché non si fraintenda quanto sto per dire, devo forse chiarire che io non conosco personalmente Scattone – anche se conosco bene la sua storia – e che non lo difenderei mai solo perché siamo (mancati) colleghi. Ho guardato in rete un po’ di reazioni alla sua rinuncia e mi pare che la maggioranza sia contro di lui: la gente non dimentica e non perdona. Non l’omicidio (colposo), badate bene, semmai di non aver chinato la testa, di non essersi fatto furbo. E allora vorrei dirgli: Giovanni, se posso darti del tu, non commettere un terzo errore, non dargliela vinta. Se anche tu fossi colpevole, ti saresti guadagnato il diritto di rifarti una vita: lo devi a te stesso, prima che a chi ti ha sempre difeso. Quanto agli altri, c’è un proverbio arabo che forse fa al caso nostro: i cani abbaiano, la carovana passa.