La storia dell’Africa nera non è fatta solo di genocidi, guerre tribali, complotti e corruzione, ma quanto di buono essa ha donato al mondo è stato negato per motivi ideologici. Il risultato è che gli africani sono stati a lungo, e sono tuttora, vittime di stereotipi degradanti dei quali, va pure riconosciuto, sono stati essi stessi almeno in parte responsabili, a causa soprattutto delle loro élites, troppo spesso servili e prive di orgoglio, secondo l’intellettuale e giornalista senegalese Boubacar Boris Diop. Tuttavia, l’opera dello storico Cheikh Anta Diop, anch’egli senegalese, ha dimostrato che poiché l’uomo è nato in Africa, anche le civiltà più antiche del mondo sono africane, e tra esse la civiltà nero-africana dell’antico Egitto.

Da entrambe le parti dell’oceano Atlantico, altri autori e pensatori neri hanno contribuito, con il loro lavoro, al riconoscimento ed all’auto-riconoscimento della dignità umana degli africani come dei discendenti afro-americani delle vittime della tratta e della schiavitù: tra essi Marcus Garvey, Frantz Fanon o ancora Aimé Cesaire: “pur situandosi sul campo della riflessione politica o dell’arte, questi autori adottano la stessa prospettiva di Cheikh Anta Diop. Nel “Discorso sul colonialismo”, Césaire fa per l’appunto un elogio molto potente dell’opera principale di Cheikh Anta Diop, ‘Nations nègres et culture’. Kwame Nkrumah ha teorizzato il  “conscientismo”, e la  “Black consciousness” di Steve Biko, così come il “Black Power” americano (“I am black and I am proud”) erano concetti molto simili.

Il ruolo di questi intellettuali della diaspora e di queste correnti di pensiero è stato decisivo. Esiste un legame pressoché diretto tra Marcus Garvey, Fanon e Malcolm X. Tuttavia vi sono stati anche cambiamenti dei quali bisogna ormai tenere conto. La Guerra Fredda è finita, così come, almeno sul piano istituzionale, sono finiti l’apartheid e la segregazione razziale in America. Le società nero-africane devono oggi ricostruirsi da sole e allo stesso tempo sotto lo sguardo del resto dell’umanità: è venuto il momento che ogni paese o regione dell’Africa nera realizzi, al proprio livello, le intuizioni ed i colpi di genio di questi grandi pensatori”.

Tuttavia, non è sempre sicuro che gli africani stessi conoscano la propria storia meglio degli europei, o per lo meno non tutta la loro storia; e forse questa relativa ignoranza potrebbe costituire una delle spiegazioni possibili dell’attuale livello di sviluppo, o di sottosviluppo, del continente africano.

“Dipende dagli argomenti: malgrado tutte le distorsioni, gli africani conoscono bene il loro passato, soprattutto i due periodi maggiori costituiti dalla tratta negriera e dalla colonizzazione. Ma quando si parla di storia contemporanea, la conoscenza è molto meno scontata. Quello che la maggioranza degli africani colti conosce a proposito della crisi ivoriana o della Libia, per esempio, giunge loro attraverso la stampa occidentale. Ciò fa sì che essi diffondano all’interno delle loro società delle informazioni influenzate dall’ottica occidentale.
Il Ruanda è un esempio particolarmente significativo da questo punto di vista. A vent’anni dal genocidio, ci s’interessa a questo tema molto più a Madrid o a New York che a Dakar o a Libreville. Parliamo sempre dell’Africa come se fosse uno spazio omogeneo, senza tenere conto delle barriere linguistiche. I senegalesi conoscono la scena politica francese molto meglio di quella della Gambia o della Guinea Bissau, due paesi pur così prossimi sotto ogni profilo”.

Ed anche in Africa d’altra parte, non solo in Italia, l’ignoranza della storia può favorire lo sviluppo di alcune forme di razzismo; in particolare, la negrofobia delle società arabe, un argomento che è rimasto a lungo un tabù anche per lo stesso Boris Diop. Tuttavia, “è giunta ormai l’ora di scoppiare il bubbone. In numero sempre crescente i neri sono maltrattati, a volte persino assassinati, in Marocco, in Algeria, in Tunisia e nella cosiddetta Libia rivoluzionaria, mentre in Arabia Saudita e in Libano lo sfruttamento delle donne africane assume le forme di una schiavitù sessuale metodicamente organizzata.

Parlo di queste cose senza odio perché è importante restare sereni: ma tacere o distogliere lo sguardo da questa questione equivarrebbe a renderci complici di questi criminali razzisti. Le loro vittime non sono dei noti intellettuali o giornalisti, ma delle persone comuni, quei poveri migranti senza importanza la cui sorte non commuove nessuno.

So però che in Marocco, per esempio, una parte della società civile si è mobilitata contro questa negrofobia sempre più violenta. È un fenomeno fondamentale, perché è in seno ai paesi coinvolti che delle voci devono levarsi, la denuncia deve prima di tutto venire dall’interno. A partire da qui, il dialogo tra le donne e gli uomini di buona volontà può svilupparsi da una parte e dall’altra del Sahara”.

Insieme all’amico universitario algerino Ali Chibani, Boris Diop si è fatto promotore di un’opera collettiva che persegue questo obiettivo. Conclude: “Quest’opera potrebbe giustamente essere dedicata a Fanon, morto per l’Algeria. Sarebbe una buona maniera di ricordare agli uni ed agli altri che la salvezza può solo risiedere in una solidarietà intelligente”.

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