Un Senato realmente rappresentativo del sistema delle autonomie territoriali richiede che i suoi membri siano indicati dai governi locali e operino con vincolo di mandato. Altrimenti, la seconda camera sarà partitocratica esattamente come la prima. Il modello Bundesrat e una riflessione necessaria.
Mauro Cucchini* (lavoce.info)
Cosa deve fare il Senato?
Riparte l’iter della riforma costituzionale, trascinandosi dietro alcuni errori di fondo. Quello iniziale fu di promettere un Senato “a costo zero”, mentre l’ultimo è l’ostinarsi a discutere sulla modalità di elezione. Eppure, prima di decidere quanto debba costare un’istituzione e come debbano essere selezionati i suoi membri, bisogna chiedersi “per fare cosa” e quanto le modalità di selezione e i poteri attribuiti siano coerenti con l’impianto desiderato. Nei mesi intercorsi tra la versione proposta dal governo e quella approvata in prima lettura si sono aggiunte o tolte funzioni, senza mai intaccare la mission originaria del Senato come camera di raccordo tra Stato e istituzioni territoriali. Ma perché i senatori rappresentino realmente l’istituzione territoriale di provenienza è necessario che si individuino modalità in base alle quali i comportamenti di voto e l’esercizio del mandato siano tali da far prevalere le logiche della rappresentanza territoriale su quelle di appartenenza politica o partitica. La proposta del governo – delegare ai consigli regionali l’elezione della larga maggioranza dei componenti – non funziona: la scelta a opera di un’assemblea rappresentativa di maggioranza e minoranze porterebbe inevitabilmente alla riproposizione delle dinamiche competitive tra partiti. Ad esempio, il senatore leghista eletto da un consiglio a maggioranza di centrosinistra o il senatore Pd eletto da un consiglio a maggioranza di centrodestra come voterebbero nel nuovo Senato? Probabilmente non seguirebbero le indicazioni provenienti da una maggioranza consiliare che avversano, bensì agirebbero come esponenti del partito di cui sono espressione. E a maggior ragione questo avverrebbe con una elezione diretta o “semidiretta”.
Modello Bundesrat
Per ottenere coerenza tra le finalità sistemiche, la composizione e l’agire quotidiano non si può che fare riferimento al modello più rigoroso esistente: il Bundesrat tedesco, i cui componenti sono espressione dei governi dei singoli Laender (art. 51,1 Grundgesetz) e votano con vincolo costituzionale di mandato (art. 51,3). Il “vincolo di mandato” è il fulcro del funzionamento del Bundesrat garantendo che l’esercizio della rappresentanza sia effettivamente coerente con la volontà del governo regionale di espressione. Potrebbe sembrare poco democratico limitare la libertà del singolo parlamentare, ma lo si comprende se si accetta il principio che la rappresentanza politica è interamente sulle spalle del Bundestag, cioè della camera titolare del rapporto di fiducia, mentre i sessantanove membri del Bundesrat sono posti a garanzia della natura federale dello Stato. È una visione tipica dei sistemi federali “originari”, dove accanto alla volontà popolare convivono modalità di tutela istituzionale per le unità federate e i due tipi di rappresentanza – politica e territoriale – sono posti concettualmente su piani quasi uguali. È questa – ad esempio – la ragione per la quale il presidente degli Stati Uniti non è formalmente eletto dal popolo, ma tramite una elezione “mediata” dai delegati dei singoli stati. Per capire come le due colonne della sovranità siano legate, vale l’esempio dell’articolo 81 della Grundgesetz, che disciplina lo “stato di emergenza legislativa”: in via eccezionale il Bundesrat, per un limite di tempo breve e definito, può esercitare una sorta di supplenza legislativa del Bundestag, consentendo cioè alla rappresentanza territoriale di surrogarsi a quella politica.
Serve una pausa di riflessione
Se si vuole che il Senato italiano sia realmente rappresentativo del sistema delle autonomie territoriali, i suoi membri devono essere indicati dai governi e devono operare con vincolo di mandato. Altrimenti, la seconda camera sarà partitocratica esattamente come la prima. Ma a che serve una camera di raccordo tra centro e periferia se viene soppressa la legislazione concorrente? Il Senato dovrebbe ricomporre criticità e frizioni in relazione alle competenze legislative esercitate dalle regioni, ma se queste vengono fortemente ridotte, che cosa mai si dovrebbe ricomporre? La relatrice Finocchiaro ha dichiarato che “se la Camera è il perno della forma di governo, il Senato deve essere il perno della forma di Stato”. Tale visione richiede un rafforzamento delle scarsissime funzioni oggi attribuite a un’assemblea in cerca d’autore, nonché una revisione nella composizione ipotizzata. Infatti, se il Senato dovrà essere più incisivo su controlli e garanzie, perché una responsabilità così delicata dovrebbe essere delegata solo a personalità espressione di assemblee elettive locali? Perché dovrebbero essere un sindaco o un consigliere regionale a occuparsi di authority o diritti delle persone? A ben vedere, l’iniziale formulazione del governo – ventuno senatori di nomina presidenziale non a vita – non era poi priva di fondamento. La Costituzione non si cambia ogni giorno e se serve altro tempo per un lavoro più raffinato non finisce il mondo. Vale la pena citare un precedente: nel 1999 la foga modernizzatrice di Tony Blair impose l’House of Lords Act che eliminava l’ereditarietà quale principale criterio di accesso alla Camera Alta. Il governo laburista però non seppe far seguire alla pars destruens una pars costruens e il sistema entrò in modalità “provvisoria” in attesa di un completamento della riforma non ancora giunto. A metà della scorsa legislatura il governo Cameron presentò una proposta di riforma organica del sistema, ma l’iniziale ampio consenso sui suoi contenuti andò affievolendosi e nel settembre 2012 il governo annunciò il formale ritiro del progetto, rinviandolo a quando le “condizioni saranno più favorevoli”. Senza drammi, crisi o ricatti reciproci. Forse non è necessario ricominciare da capo e un passo indietro, un “riflettiamo”, non è di per sé segno di debolezza. Intestardirsi su soluzioni rabberciate per finalità di mero marketing politico sarebbe invece imperdonabile.