I numeri che vi sono contenuti raccontano – peraltro senza grandi sorprese – di uno stanco gigante dalle gambe di argilla che costa tanto, produce poco e, soprattutto, rassomiglia, ormai, più ad una società finanziaria e di servizi che ad un ente pubblico economico chiamato dallo Stato a difendere, in una posizione di straordinario privilegio, i diritti e gli interessi di autori ed editori.
Ma stiamo ai numeri.
Nel 2014 la Siae ha speso oltre 182 milioni di euro per incassarne – a titolo di diritti d’autore – poco più di 524 milioni.
Appena un milione di euro in più rispetto allo scorso anno ma oltre trenta milioni in meno rispetto al 2010.
In Francia – tanto per avere un riferimento – la Sacem, cugina francese della Siae – nello stesso anno, ha speso poco più di 150 milioni di euro per incassare oltre un miliardo e trecento milioni.
E, naturalmente, ad incassi tanto modesti, corrisponde un altrettanto modesto riparto tra gli aventi diritto ai quali, nel 2014, Siae è riuscita a garantire appena 460 milioni di euro, una cifra inferiore di oltre la metà a quella ripartita dalla Sacem che ha distribuito, nello stesso anno, oltre un miliardo e cinquanta milioni di euro.
E per confermare che la società italiana autori ed editori costa tanto e produce poco basta confrontare due dati: la Siae spende circa il 30% di quello che incassa a titolo di diritto d’autore mentre la francese Sacem poco meno del 12%. Maggior efficienza nella gestione del diritto d’autore sembra, dunque, un traguardo bello e possibile. Senza contare che la Siae, nel 2014, ha incassato da autori ed editori oltre 11 milioni di euro di quote associative contro il mezzo milione di euro versato alla francese Sacem, una tantum, dai suoi 4 mila nuovi iscritti.
Non è facile accettare l’idea che, a casa nostra, si chieda ad autori ed editori di pagare venti volte di più di quello che pagano i loro colleghi d’Oltralpe, solo per poter sperare di vedersi riconoscere meno della metà. Ma c’è un dato, annotato, anno dopo anno, tra le pieghe dei bilanci Siae, che lascia più perplesso di altri e solleva inquietanti interrogativi.
E’ quello relativo ai proventi finanziari che la società percepisce sulle somme incassate, somme che dovrebbero essere ripartite, il più velocemente possibile, ai titolari dei diritti per i quali, molto spesso, rappresentano la principale entrata e che, invece, indugiano nei conti correnti e nei fondi di investimento della Siae per anni.
Oltre 30 milioni di euro nel 2014, grazie ai quasi 840 milioni di euro in deposito, in attesa di riparto.
Nella relazione al bilancio la Siae mette le mani avanti rispetto a questa obiezione – non nuova e sin troppo facile – e si giustifica rilevando che tale fenomeno lungi dall’essere patologico è da considerarsi naturale in ogni collecting society in ragione del fatto che tra il momento in cui si raccolgono i diritti d’autore e quello in cui si ripartiscono passa, inevitabilmente, del tempo, stante la difficoltà di procedere all’attribuzione della giusta percentuale di quanto raccolto a ciascun avente diritto. Excusatio non petita, accusatio manifesta, però, dicevano i latini davanti a chi si giustificava senza che alcuno gliene avesse chiesto conto.
Ed è così, probabilmente, anche per la Siae.
Guai a negare che l’intermediazione collettiva dei diritti avendo per necessario presupposto la raccolta di ingenti quantità di denaro in attesa di riparto possa generare rilevanti proventi finanziari. Ma il punto, però, è l’entità di questi proventi rispetto a quanto si raccoglie. E basta confrontare i dati dei proventi finanziari percepiti dalla Siae con quelli percepiti dalla francese Sacem, per avvedersi, che, da noi, qualcosa non funziona.
La società francese, infatti, pur avendo raccolto e ripartito nel 2014 importi più che doppi rispetto a quelli della Siae, dichiara proventi finanziari in linea con quelli della società di Viale della letteratura [ndr meno di nove milioni di euro in più] e questo perché le somme che rimangono in giacenza nelle casse della Sacem sono addirittura inferiori a quelle all’origine della fortuna finanziaria della Siae. Nessun dubbio, dunque, che una società di intermediazione dei diritti, volendo può ripartire il denaro tra i titolari dei diritti più rapidamente di quanto faccia la nostra Siae, a condizione, naturalmente, di essere disponibile a rinunciare a parte dei suoi ricchi proventi finanziari.
La domanda a questo punto sorge spontanea: per la Siae i ricchi proventi finanziari sono una conseguenza del proprio modello di business o sono diventati essi stessi il modello di business? Nel secondo caso, naturalmente, la Società si ritroverebbe in un plateale conflitto di interessi giacché più è lenta ed inefficiente nella distribuzione di quello che incassa e più si arricchisce o, almeno – vista la situazione preoccupante dei suoi bilanci – meno si impoverisce. Sono numeri e cifre che dovrebbero suggerire a Parlamento e governo di porre mano, con urgenza, alla più volte annunciata riforma della normativa dell’intermediazione dei diritti d’autore, tanto più che, nei prossimi mesi, sarà comunque necessario recepire in Italia la nuova disciplina europea della materia. E, forse, in questa prospettiva varrà la pena tener presente che in Francia, dove le cose sembrano andar meglio che da noi, il mercato Siae si è, da tempo, sottratta rivendicando la propria natura di soggetto privato.
Guai a pensare di avere in tasca cure e ricette di sicuro successo ma – a leggere l’ultimo bilancio della società italiana autori ed editori – è difficile dubitare che far qualcosa per cambiare la situazione sia urgente ed improcrastinabile perché, altrimenti, a farne le spese sarà l’intero sistema culturale italiano.
Ed è per questo che prima di chiedere – come qualcuno sembrerebbe voler fare e la stessa Siae suggerisce – a Google, Facebook ed agli altri big di Internet di mettere mano al portafogli per finanziarie l’industria culturale nazionale, varrebbe la pena provare a rendere più efficiente il sistema attraverso il quale, a casa nostra, garantiamo o dovremmo garantire, i diritti e gli interessi di autori ed editori.
Al riguardo, fa riflettere anche la circostanza che nel 2014 la Siae abbia investito in progetti culturali e sociali appena 1,6 milioni di euro mentre la Sacem oltre 52,6 milioni di euro, ovvero 50 milioni di euro in più.
NOTA DI TRASPARENZA: il post è basato esclusivamente su numeri, come tali, obiettivi. Segnalo, tuttavia, al lettore di assistere professionalmente una società concorrente della Siae.