Tutto diventa sempre più maledettamente rapido, anche in fotografia. Non è un male per definizione, ma un rischio per chi – trascinato dalla corrente – non si concede neanche più il tempo per pensare.
Pericolo che, a quanto pare, non ha mai corso Claudine Doury, il cui lavoro Loulan Beauty è visibile al Festival Savignano Immagini fino al prossimo 27 settembre.
Se una in particolare tra le varie mostre di questo Festival (forse il più longevo del genere in Italia, con le sue 24 edizioni) voglio segnalare, è proprio questa per varie ragioni: la qualità fotografica e la cifra narrativa, anzitutto, in armonia perfetta.
Ma se mi piace parlare brevemente di questo lavoro e di questa autrice è anche per un’altra peculiarità, un altro aspetto che emerge dal percorso umano e fotografico di Claudine Doury.
Loulan Beauty racconta di vite e luoghi in bilico nel passaggio tra passato e incerto futuro: per quattro anni la nostra Claudine ha viaggiato attraverso l’Asia Centrale post-sovietica e la provincia cinese dello Xinjiang, osservando le mutazioni sociali, geografiche, urbanistiche ed economiche innescate a partire dal crollo dell’Unione Sovietica.
Fotografie apparentemente rarefatte, in realtà densissime di storie – le donne vere protagoniste – con qualcosa di misterioso e ancestrale ad aleggiare su tutto. Un tempo sospeso nell’attesa di qualcosa, forse di un ritorno a un qualche antico mito.
Mi fermo perché guai a chi tenta di descrivere con le parole un racconto fotografico, e tanto più in un caso come questo.
Era giusto un accenno per invitarvi a vedere l’intero lavoro, pubblicato anche in un libro. Tutto questo per arrivare alla “scoperta” che, come dicevo, più mi ha colpito e che riguarda la biografia e il percorso professionale della stessa Claudine Doury: prima di iniziare a fotografare professionalmente, ha praticato per molti anni il mestiere di Photo Editor: si è dunque occupata di fotografie altrui, guardandole, soppesandole, scegliendole, selezionandole, organizzandole. Fiumi di fotografie, valanghe di fotografie. Lo ha fatto per lunghi anni, a Gamma, poi a Contact Press Images a New York e infine a Libération, nuovamente a Parigi.
Un caso davvero raro di umiltà e passione. Molto più di frequente si osserva una fretta boia a fare e dirsi fotografi – la Nikon a Natale e la prima mostra a Santo Stefano – o, rimanendo al ruolo di Photo Editor, il percorso inverso: un fotografo che “ha già dato”, magari un po’ piegato dal peso degli anni e delle borse piene di attrezzatura sulle spalle, passa dal’altra parte e da giocatore diventa arbitro, mettendo a frutto tutta la strada fatta e l’esperienza accumulata.
Ma l’esordio da fotografo dopo anni di attesa, di consapevolezza e di maturazione attraverso le altrui visioni è una grande lezione, con un sapore d’altri tempi.
Tardivo è stato l’esordio e – guarda caso – fulmineo il successo: una specie di supernova che brilla all’improvviso dopo miliardi di anni d’invisibilità, e subito premi e riconoscimenti internazionali.
Tutti i suoi progetti fotografici durano anni, sono lenti nella genesi e nella risultante visione.
Così come lenta è stata la sua gestazione di fotografa, nella placenta di una redazione, fino alla sua prima foto col senso di un primo vagito, con ancora tutta una vita davanti.
Che poi, avere la vita davanti, è la vera scelta esistenziale di ogni fotografo.