Quello a Cuba e negli Stati Uniti è destinato a diventare il viaggio del pontificato di Papa Francesco. Un privilegio solitamente riservato a quello che il vescovo di Roma compie in Terra Santa. È avvenuto così per il beato Paolo VI, il primo Papa a tornare nella terra di Gesù, lì dove è iniziato il cristianesimo, per san Giovanni Paolo II e per Benedetto XVI. Non sarà così per Bergoglio che in Terra Santa è andato allo scoccare del primo anno di pontificato.
Ciò avverrà non solo per le immagini forti che ci regalerà il viaggio a Cuba e negli Usa: gli abbracci con Raul e Fidel Castro, la messa nella plaza de la Revolucion di L’Avana davanti alla gigantografia di Che Guevara, l’accoglienza di Barack e Michelle Obama alla scaletta dell’aereo nella Andrews Air Force Base di Washington (avvenne solo con Benedetto XVI e George W. e Laura Bush nel 2008), la visita alla Casa Bianca, la prima volta di un Papa al Congresso americano, il discorso alle Nazioni Unite, l’incontro interreligioso al Memorial di Ground Zero, la messa nel Madison Square Garden e l’incontro con i detenuti dell’Istituto di correzione di Filadelfia.
Il viaggio di Francesco a Cuba e negli Stati Uniti, dal 19 al 28 settembre prossimi, suggellerà il successo diplomatico dell’arcivescovo di Buenos Aires divenuto Papa. Un successo concretizzatosi in appena due anni di pontificato con il disgelo tra i due Paesi americani e la riapertura delle rispettive ambasciate dopo oltre cinquant’anni. Non a caso Bergoglio ha voluto aggiungere la tappa cubana al viaggio già previsto negli Usa per l’ottavo Incontro mondiale delle famiglie di Filadelfia, arrivando negli Stati Uniti proprio dall’isola caraibica e non da Roma.
Il Segretario di Stato americano, John Kerry, alla cerimonia dell’alzabandiera nell’ambasciata Usa a L’Avana ha voluto subito ringraziare Bergoglio. “Il Santo Padre e il Vaticano – ha affermato Kerry – hanno avviato un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due Paesi, non è per caso che il Pontefice verrà qui e poi negli Usa”. Il successo diplomatico di un “pastore con l’odore delle pecore”, come è Bergoglio, sconvolge i suoi denigratori. Quelli che a dispetto della sua popolarità e della celerità delle sue efficaci riforme continuano invano a tentare di cucirgli addosso l’immagine di un “parroco di campagna”.
Del resto non è nemmeno una novità nella storia recente della Chiesa che un “parroco del mondo” possa avere successo nel campo della diplomazia. È esattamente ciò che avvenne con san Giovanni XXIII nel 1962 durante la crisi dei missili di Cuba e le tensioni tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica. Ma Roncalli era stato nunzio in Bulgaria, Grecia, Turchia e in Francia prima di diventare patriarca di Venezia e poi Papa. Bergoglio no. Ha sempre fatto il sacerdote e poi il vescovo. E sarà proprio la sua parola di pastore a far sentire all’Onu il grido dei poveri e dei profughi rinnovando il suo appello per la pace. Francesco farà sue le parole che Montini pronunciò alle Nazioni Unite nel 1965: “Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!”.