Centosessantuno. E’ questo il numero magico su cui si rompe la testa il governo da settimane. Servono 161 sì al ddl Boschi per ottenere il via libera in terza lettura a Palazzo Madama e soprattutto per tenere in vita l’esecutivo che a questa riforma ha deciso di affidare la tenuta della legislatura. Secondo il pallottoliere nella versione più ottimistica, il governo può contare sulla carta su 182 voti: 112 sono i senatori del Partito democratico (non si conta Pietro Grasso che essendo presidente del Senato per prassi non vota); 35 i parlamentari di Area popolare (Ncd-Udc); 19 del gruppo Psi-Autonomie di cui fanno parte anche 5 senatori a vita (ma Carlo Azeglio Ciampi non vota più da tempo per motivi di salute); 10 della neoformazione di Denis Verdini, Ala (Alleanza Liberalpopolare Autonomie); 5 del gruppo Misto (i transfughi di Forza Italia Repetti e Bondi, il senatore a vita Mario Monti, l’ex Pd Margiotta e il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova); due di Gal (Paolo Naccarato e Michelino Davico). A questi si potrebbero aggiungere due pedine: gli ex M5S e ora “rifondatori” del gruppo dell’Italia dei Valori Alessandra Bencini e Maurizio Romani che hanno detto di essere pronti a votare con il governo. Un conto che già di per sé è ottimistico perché le posizioni di alcuni dei senatori citati si sono modificate nel tempo ed è difficile cristallizzarle.
Di certo il pallino ora è in mano alla minoranza del Partito democratico. Sono 28 i dissidenti che hanno firmato gli emendamenti per chiedere l’elezione diretta del Senato. Se tutti compatti voltassero le spalle al partito in sede di votazione, Renzi potrebbe avere problemi seri a far passare il provvedimento. Ma il governo è sicuro che di quei 28 in molti resteranno fedeli al Pd. “Non ci si può appellare alla disciplina di partito sulla Costituzione”, ha detto Pier Luigi Bersani nei giorni scorsi. Ma non è detto che tutti i dissidenti lo seguano compatti. Sono gli stessi che già non votarono il ddl Boschi nel primo giro al Senato. Tra loro ce ne sono di semisconosciuti, ma altri sono volti “noti”: il braccio destro di Bersani Miguel Gotor, per esempio, l’ex sindaco di Brescia Paolo Corsini, l’ex ministro per le Riforme istituzionali del governo Prodi Vannino Chiti, l’ex giudice Felice Casson, il giornalista Corradino Mineo, l’ex magistrato Doris Lo Moro.
E i numeri, oltre alle parole, sono importanti anche in commissione. La decisione di Palazzo Chigi di fare pressing per saltare l’esame in commissione non è leggibile solo per risparmiare tempo, ma anche perché già lì i numeri sono a rischio: i favorevoli al testo – nonostante la sostituzione di Mario Mauro e il riassetto di alcune settimane fa – potrebbero non essere più di 13 su 27, ma potrebbe finire anche peggio.
Anche perché l’altra incognita è quella del Nuovo Centrodestra. I parlamentari di Angelino Alfano hanno provato ad alzare la testa: il loro sì in cambio di una modifica all’Italicum. L’ex ministro Gaetano Quagliariello ha addirittura già presentato un disegno di legge per prevedere nel nuovo sistema elettorale. Certo, resta la posizione di Renzi non si muove di un millimetro: “Mi sta facendo una domanda su una legge approvata il 29 aprile 2015, cinque mesi fa – ha detto in un’intervista a Otto e mezzo – Domandi a loro perché hanno cambiato idea, dopo che hanno votato quella legge elettorale”. Resta da vedere se l’Ncd terrà il punto.