Nel piccolo comune di Ribordone, in provincia di Torino, il canone di abbonamento alla televisione è pagato solo da 4 famiglie su 49 (ricordo che il canone di abbonamento alla televisione è una tassa a carico del nucleo familiare). A Casal di Principe, in provincia di Caserta, il canone è pagato dall’8% delle famiglie; a San Marcellino su 5.099 famiglie il canone è pagato solo da 429 famiglie. A Platì, in provincia di Reggio Calabria, 127 famiglie pagano il canone e non le altre 1.130. A Terento, in provincia di Bolzano, il canone è invece pagato dal 91% delle famiglie. A Galatina, una bella cittadina del Salento, il canone è corrisposto dall’86% delle famiglie.
In Italia, la densità degli abbonamenti sul totale delle famiglie è pari al 64,8%; la Rai quantifica la densità sulle famiglie soggette al canone (escludendo le coabitazioni e il mancato possesso dell’apparecchio Tv) in 69,5%. In tutti i paesi europei, il canone è corrisposto dal 95% circa dei contribuenti. La provincia più “virtuosa” è Ferrara con il 79% di densità; mentre la maglia nera spetta a Crotone con il 42%. In generale, il nord fa registrare la maggiore densità, mentre il sud e le isole hanno la maggiore evasione (regioni dove si registra peraltro un consumo superiore di televisione).
L’elevata evasione (e il divario marcato nel territorio) rende quanto mai urgente una revisione del canone, annunciata da più di un anno dal governo. Quando in un condominio, quattro-sei famiglie su dieci non pagano il canone, si corre il rischio che gli “onesti” contribuenti di quella casa le possano considerare un modello da imitare. Se un tributo, che per definizione è rivolto all’universalità dei contribuenti, è corrisposto solo, in diverse zone, da una minoranza, perde la sua natura fiscale e rischia di apparire ai più come un vero e proprio “balzello”. È quanto sta avvenendo al canone di abbonamento. L’avversione nei confronti del canone si accentua perché il canone finanzia la Rai. La maggioranza della popolazione è favorevole alla presenza di un vero servizio pubblico, ma appena si ricorda che è la Rai a gestire il servizio pubblico, il giudizio cambia radicalmente proprio per l’immagine non proprio positiva dell’azienda di viale Mazzini.
Servizio pubblico e Rai sono un’unica entità nella forma, ma nella sostanza da alcuni anni si è come scissa: una contraddizione da ricomporre, pena la sopravvivenza dell’azienda pubblica. Il nuovo vertice della Rai ha affermato che vuole trasformarla in una “media company”: vedremo se il binomio si ricomporrà al meglio.
Nel 1954, gli abbonati alla televisione, appena nata, erano 88.675. Nel 1960 arrivarono a 2,2 milioni, mentre dieci anni dopo sfioravano i 10milioni. La massima densità fu raggiunta nel 1996 con l’81%. Nei sessant’anni trascorsi, la densità non ha mai raggiunto le vette degli altri Paesi europei (durante il lungo periodo del monopolio pubblico, la Rai “democristiana” è stata sempre restia a contrastare effettivamente l’evasione). Il declino vero è incominciato dal 2006, quando la densità è scesa sotto il 70%.
La soluzione spazia fra due opzioni estreme. Si potrebbe eliminare il canone, prevedendo che la Rai si finanzi con la pubblicità. Si avrebbe un’azienda del tutto commerciale, che la logica suggerirebbe di privatizzare. L’altra soluzione è fare in modo che il canone sia pagato dalla grande maggioranza dei contribuenti (a tale proposito il governo aveva ipotizzato di legare il canone alla bolletta dell’energia elettrica). Si dovesse raggiungere il traguardo, il canone potrebbe anche essere dimezzato (una nostra vecchia idea è di prevedere un canone base, di entità ridotta, e canoni aggiuntivi, facoltativi, per offerte premium).
Il punto centrale è la rinascita di un vero servizio pubblico, di dimensioni più ridotte e con una programmazione educata e rispettosa di tutti. In questo caso il canone, pur mantenendo la natura tributaria, apparirà a molti la remunerazione di un servizio (e l’evasione, solo per questo, si ridurrà), se la Rai rimarrà tal è, come sembra, si continuerà a pagare una tassa.