Le commissioni Giustizia e Finanze di Camera e Senato hanno girato a Palazzo Chigi nuovi rilievi sul decreto che riforma le sanzioni penali per i reati fiscali. Ma il consiglio dei ministri, che sta per vararlo in via definitiva, non ha tenuto conto delle principali osservazioni contenute nei pareri precedenti
Sopprimere la franchigia del 10% che evita il carcere a chi, nella dichiarazione dei redditi o dell’Iva, sottostima le proprie entrate o sovrastima i costi deducibili per parlare meno tasse. Perché in caso contrario il risultato sarà un notevole “effetto sanatorio” a beneficio degli evasori. C’è anche questa tra le osservazioni che la commissione Finanze del Senato, pur dando un parere “non ostativo”, ha girato al governo Renzi dopo aver esaminato per la seconda volta il testo del decreto legislativo che riforma le sanzioni penali per i reati fiscali. Le commissioni Giustizia e Finanze della Camera, invece, tornano a chiedere che per i delitti di omessa dichiarazione e omesso versamento di ritenute certificate e dell’Iva sia prevista “una circostanza aggravante”, aumentando le pene di un terzo se il responsabile ha utilizzato “mezzi fraudolenti o documentazione falsa”. Tutto da vedere se il Consiglio dei ministri, che la prossima settimana varerà il decreto in via definitiva, ne terrà conto. Finora non è andata così: la versione approvata in via preliminare il 4 settembre ha tenuto conto solo in minima parte, e su aspetti marginali, delle modifiche auspicate già in precedenza dalle commissioni. I cui pareri, del resto, non sono vincolanti.
Nessun ritocco è stato fatto sulle soglie di non punibilità: per rischiare il carcere, ad esempio, sarà necessario evadere Iva per almeno 250mila euro, mentre finora il tetto era di 50mila euro. La Giustizia e la Finanze della Camera avevano chiesto che fosse solo triplicato, ma Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non sono tornati sui loro passi. Nessun ripensamento, nell’ultima versione del decreto, nemmeno sul comma grazie al quale chi ha scritto il falso nella dichiarazione non ne risponde in sede penale se il gap tra l’imponibile reale e quello reso noto al fisco deriva da “valutazioni” che differiscono meno del 10% da quelle corrette. Una norma che è prevista anche nella versione attuale della legge sui reati tributari. Ma, scrivono i senatori della Finanze, “il combinato disposto tra la previgente franchigia del 10% sulle singole operazioni e l’innalzamento delle soglie di punibilità estende eccessivamente l’effetto sanatorio“. Non a caso il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco aveva chiesto che la norma fosse chiarita meglio evocando il rischio che con queste modifiche molti processi in corso saltino.
E’ rimasta identica, nonostante le commissioni Giustizia e Finanze della Camera avessero posto come condizione (non vincolante) la sua soppressione, anche la nuova formulazione dell’articolo sulla dichiarazione fraudolenta: l’evasore è punibile solo se si è avvalso di “documenti falsi o altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e indurre in errore l’amministrazione finanziaria”. Il che, ha fatto presente il presidente dell’Anm Alfonso Maria Sabelli, rischia di far sì che l’accertamento stesso della frode “possa essere invocato come prova della sua inidoinetà a ingannarla”. Permettendo paradossalmente al responsabile di farla franca.
La Finanze del Senato, nonostante gran parte dei precedenti rilievi siano stati ignorati, torna poi alla carica invitando il governo “a prevedere una maggiore graduazione delle sanzioni amministrative superando l’attuale distinzione tra le ipotesi di frodi e le altre violazioni”. In pratica l’auspicio è che alle ipotesi di frode siano applicate “sanzioni sensibilmente maggiorate rispetto alle attuali”, a quelle di evasione “sanzioni analoghe a quelle attuali” e ai casi di colpa non grave “sanzioni sensibilmente ridotte rispetto alle attuali”.