Dodici tracce registrate tra il 7 aprile e il 5 maggio a Berlino, nei polverosi e mitici studi del Funkhaus, la ciclopica e ormai semiabbandonata struttura sulle rive della Sprea da dove irradiavano le onde della Rundfunk der DDR, la radio statale della Repubblica Democratica tedesca. Ma la sua attrattiva determinate, per artisti e case discografiche, non è tanto il fascino decadente dell’architettura quanto l’acustica. Nel suo dedalo di studi hanno inciso tra gli altri Sting, Black Eyed Peas e orchestre dirette da grandi della classica come Daniel Barenboim.
Il Funkhaus non è un componente marginale di Cultura Generale. La marziale presenza – nello specifico quella della sala Schaltraum, dove hanno inciso i Ministri – avvolge ognuna delle tracce in un riverbero asciutto e le sfuma in un una timbrica allo stesso tempo intima e distante. Altro elemento non trascurabile per il carattere dell’album è stata la presenza dietro a mixer e microfoni di Gordon Raphael. Il produttore di Seattle è stato voluto dagli stessi Ministri, entusiasti ammiratori del suo lavoro con gli Strokes. A lui hanno affidato la registrazione in presa diretta, sulla quale si è intervenuto poco anche in post produzione. Un lavoro volutamente direzionato verso la schiettezza; tradizione sonora inaugurata, come ci raccontarono con l’album precedente. Il Funkhaus e Raphael sono importanti ma ci sono anche e soprattutto i Ministri. Le nuove composizioni non stravolgono la loro fisionomia: batteria senza fronzoli ma incisiva ed efficace, basso ricco per melodie e ritmica, chitarra che traina col cuore. Una fisionomia tuttavia in mutamento. La tendenza a comporre brani più pop prosegue. Il primo singolo, Estate Povera, e la prima traccia resa pubblica, Balla Quello Che C’è, lasciavano supporre, e alcuni lo temevano, che la virata hipster fosse omnipervasiva.
Premesso che pretendere immutabilità da una band è assurdità, Cultura Generale – e lo diciamo per i duri e puri – non è, al netto di qualche ammiccamento (soprattutto della voce), un album schickimicki. Il primo brano, Cronometrare la Polvere, ha un tiro e un ritornello che s’insinuano sotto pelle e ci restano; il testo non è scontato, parla del subire le cose, una poetica che negli anni settanta sarebbe stata definita, mutuando György Lukács, ‘della reificazione’. Un gran pezzo che termina con sinth e voci aliene, omaggio alla Kosmische Musik made in Berlin. Arrivano poi i brani che hanno messo in guardia alcuni fan della prim’ora; dategli fiducia: la carica vitale, a briglie sciolte in una catarsi in piena, di Balla Quella Che C’è e il surrealismo asciutto da città deserta di Estate Povera vi ripagheranno.
Le Porte è poppettone Brit a Stelle e strisce; se l’intro, un palm muting semi folk, è in odore new wave – i primi Cure, per intenderci – l’assolo, che sinuoso si fa strada dalle retrovie per conquistare la scena, è puro hard rock; arrangiata diversamente non sfigurerebbe a San Remo – e non è necessariamente un male. All’intimista Io Sono Fatto di Neve – bello il dialogo ritmico tra voce e batteria – segue il disimpegno: Macchine Sportive è forgiata con la stessa matrice di altre loro vecchie canzoni come La Faccia di Briatore e Vicenza. Gli anni 90 fanno sentire tutto il loro peso in Il Giorno Che Riprovo A Prendermi. Poetica minimale per la melanconica Lei Non Deve Stare Male Mai; tavolo massiccio di basso e batteria su cui poggia un delicato centrino di chitarre. Vivere Da Signori è una macchina perfetta che attinge alla tradizione sabattiana; Idioti, con un riff che è chiave di volta ad un edificio che è pampleth contro il perbenismo, ha tutti i crismi per diventare inno imperituro. La canzone che dà il titolo all’album è una delicata melopea d’atmosfera; dovrebbero inciderla su un cilindro per carillon. Si termina con Sabotaggi, non ai livelli delle tre precedenti ma sempre coinvolgente.
A tutto questo bisogna aggiungere i testi; Dragogna non delude: gli affreschi e le suggestioni che parlano di delusione, forza vitale, nostalgia, ostinazione e di tutto quanto lasciato intentato guardano a questi tempi con disincanto, lasciano spazio a propulsione ed evitano il didascalico. Pop o non pop, schickimicki o non schickimicki, un album semplicemente bello. Un appunto? Speriamo solo che Divi si fermi nella scalata verso la vetta della vocale aspirata.