La diplomazia e l’opinione pubblica internazionali hanno attenzioni discontinue per le crisi, e non sempre i picchi d’attenzione coincidono con i picchi di gravità. E’ quel che accade con la Siria, dopo quattro anni e mezzo di guerra civile, oltre 250 mila vittime e milioni di rifugiati, che transumano verso l’Europa o, nella stragrande maggioranza, stazionano accampati in Libano, Giordania, Turchia. Eppure, dall’estate del 2013, cioè da quando la guerra per le armi chimiche fu sventata in extremis da Putin, dopo che Obama s’era ficcato in un vicolo cieco, di Siria si parlava quasi esclusivamente per l’avanzata del califfo: la battaglia di Kobane, la presa di Palmira, con il loro corredo di atrocità e barbarismi.
Adesso, il mix dell’inarrestabile flusso migratorio – con i francesi che, scavalcati dalla Germania nell’accoglienza, rispolverano un piglio interventista- e del crescente attivismo russo, cui si contrappone la perdurante inazione Usa, raid aerei a parte, hanno riacceso i riflettori sulla Siria. C’è chi scopre come nuovo il sostegno di Putin ad al-Assad, e c’è chi torna a porsi il dilemma del futuro della Siria rinnovando il tormentone, del resto irrisolto, con o senza al-Assad. Mentre i siriani s’interrogano più essenzialmente del futuro del loro Paese e di loro stessi.
Su AffarInternazionali.it, l’ambasciatrice Laura Mirachian ricorda che uno schema di lavoro già c’è, o ci sarebbe: Kofi Annan nel giugno 2012 ipotizzò un metodo che “può essere ancora praticato, anche parallelamente a iniziative militari di contrasto” al sedicente Stato islamico. Il metodo prefigura una fase di transizione, con un governo dotato di pieni poteri, che “provveda ad avviare un dialogo, a redigere una nuova Costituzione e a predisporre elezioni generali multi-partitiche, all’insegna della continuità delle istituzioni statali e del perseguimento dei criminali”.
“Il destino di al-Assad –scrive la Mirachian- verrà segnato dagli stessi siriani. Questo dialogo servirà in primo luogo a emarginare l’Is, sottraendogli adepti volontari e involontari, e a recuperare i ceti medi che nella disperazione stanno massicciamente lasciando il Paese e che dovrebbero invece essere il perno della futura Siria. Certo – aggiunge l’ambasciatrice – siamo in grave ritardo. S’impone con assoluta urgenza un tavolo attorno al quale reperire i termini di una nuova Siria. Occorre recuperare gli arabi del Golfo, rassicurare la Turchia, sfruttare la disponibilità dell’Iran, e non ultimo dell’Egitto e del Maghreb, e raccogliere la sfida che sta lanciando la Russia”.
Tanti spicchi quanti sono gli spicchi della Siria: c’è la fetta lungo in confine turco più o meno controllata dai curdi; c’è un cuneo dove prevarrebbe al Nusra, l’opposizione integralista; c’è il sud inclusa Palmira e ben oltre nelle mani del Califfato; c’è Aleppo contesa; ci sono la costa e Damasco e Homs ancora sotto l’autorità del regime e dei ‘lealisti’, pur con qualche ‘buco’.
Tanti attori, tante Sirie. E ciascuno ha la sua agenda, anche le monarchie del Golfo, o Israele, che fin quando i suoi nemici se le danno di santa ragione fra di loro può limitarsi a guardarli dall’alto delle alture del Golan mai così saldamente sue come oggi.
Apparentemente, i recenti fatti nuovi militari, in ordine di tempo l’entrata in azione della Turchia nei raid contro le milizie jihadiste, l’intervento con droni della Gran Bretagna e il coinvolgimento nei raid della Francia, la conferma di una significativa presenza militare russa non hanno modificato la situazione sul terreno in modo significativo. Ankara cerca d’acquisire in Siria la patente d’anti-terrorismo per picchiare in testa ai curdi in casa; Londra e Parigi vogliono solo fare vedere che fanno qualcosa per i siriani (mentre Berlino accoglie i rifugiati) e Mosca bada a tutelare al-Assad più che a combattere il califfo.
Fra i nemici dichiarati del presidente siriano, gli Stati uniti avrebbero il desiderio di disinteressarsi di quanto avviene tra Iraq e Siria, se non fosse che un bel po’ di questi guai derivano dall’invasione del 2003 e dall’abbattimento “al buio” di Saddam Hussein. Qui, l’America non ha più interessi economici strategici, ma la Super-potenza non può esimersi dal guidare la coalizione che si oppone alle milizie jihadiste e che lei stessa ha promosso: il Califfato bisogna pur combatterlo da lontano, chirurgicamente, con droni e raid aerei mentre quelli, chirurgicamente sgozzano ostaggi e oppositori.
Fra i Grandi del mondo e della Regione, la Russia e l’Iran stanno chiaramente con al-Assad. Qui, Putin si gioca molto: interessi politici e militari, economici ed energetici: la mano pesante contro l’Is è una mano tesa a Obama. Quanto agli iraniani, freschi di riammissione nel ‘salotto buono’ della diplomazia internazionale, dopo l’accordo sul nucleare, possono apertamente fare da spalla ad al-Assad, sapendo di essere anch’essi indispensabili a contenere il Califfo: in Iraq, senza il generale Soleimani e i suoi Pasdaran, gli jihadisti sarebbero forse già arrivati a Baghdad.
Non che Putin e Khamenei siano pronti a ‘morire per Damasco’: loro vedono al-Assad nel futuro della Siria, ma se anche solo gli evitano la fine di Gheddafi è già qualcosa di positivo.