Grazie per avere ricordato la strage di Sabra e Chatila. Sembra inspiegabile come, eventi di tale drammaticità, riescano a passare inosservati, ai più.
Paolo Riva.
Questa mail è arrivata nel giorno in cui nelle pagine “Esteri” della nostra testata è uscito l‘articolo sulla commemorazione – da parte della gente del campo profughi – dell’eccidio di Sabra e Chatila, avvenuto nel settembre 1982.
Farshid Nourai assicura che fino a qualche anno fa i reporter europei che volevano raccontare quella realtà erano così numerosi da essere addirittura poco graditi da chi, da tre o quattro generazioni, vive senza alcun diritto e senza neppure poter trovarsi un lavoro in quanto rifugiato in un chilometro quadrato sovraffollato da quasi 30mila persone. Farshid Nourai è il coordinatore nazionale di Assopace che da sei anni sostiene progetti formativi rivolti ai ragazzi all’interno del campo insieme al “Children & Youth Center – Cyc”, associazione indipendente palestinese diretta da Mahmoud Abbes (per tutti Abu) studente nella Cuba che fu.
Ai libanesi di Chatila non importa nulla. Me lo ha chiaramente detto Melissa, collega che si occupa di economia nella principale testata giornalistica del Paese dei cedri e che sfacciatamente rispecchia tutte le contraddizioni del nostro tempo, in particolare della zona mediorientale. Ci siamo incontrate in un caffè della downtown di Beirut: linda, ordinata, straripante di vetrine di lusso incastonate nelle facciate di antichi palazzi dai ricchi profili, osservati dall’alto dai monumentali edifici che sputano Maserati e Ferrari.
Per il Libano Chatila dovrebbe essere cancellata, meglio se fisicamente, ma intanto lo si fa con la memoria. Quella stessa memoria che evapora anche a noi sempre troppo velocemente subito dopo il passaggio del fragore degli eventi. È un po’ il male di tutti noi che pensiamo che le notizie siano dove sono tutti a raccontarle. Ma illuminare ciò che è già sotto i riflettori – che dà sempre lustro – per me non ha gusto.
Su ciò che è accaduto a Chatila, autorevoli giornalisti hanno scritto cose da manuale. Solo per citare un passo di Robert Fisk: “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico”.
Oggi noi possiamo riportare la testimonianza dei superstiti, come il racconto della donna letteralmente impazzita per il dolore dell’uccisione delle sue cinque figlie da parte dei falangisti libanesi che perpetrarono per ore un massacro senza che l’esercito israeliano intervenisse nonostante, dopo la partenza delle forze internazionali, avesse ricevuto il mandato di preservare la sicurezza in Libano.
Cosa deve significare perdere la propria famiglia? Se è vero, come diceva lo scrittore e giornalista polacco Ryszard Kapuściński, che “il cinico non è adatto a questo mestiere”, non si può non chiederselo. Mentre si attraversano quelle strade strette tra palazzi che rischiano di baciarsi a forza di crescere in altezza. Entrando nello spiazzo sotto al quale giacciono ancora i cadaveri del massacro di cui non sono certi neppure i numeri delle vittime. Fino a poco tempo fa in questo posto c’era una discarica: sotto i morti, sopra la monnezza.
È in questo luogo che gli esponenti del frastagliato e articolato mondo politico che governa il campo profughi hanno ricordato i loro morti. I bambini giocano con la grande bandiera della Palestina. Non sanno bene perché ogni anno avvenga questo, non lo sanno perché nei libri stampati secondo i programmi scolastici libanesi l’eccidio di Chatila non è contemplato. Lo imparano ascoltando il racconto dei vecchi: un passaggio di testimone della memoria. Avverrà fino al momento in cui qualcuno non deciderà di dimenticare di ricordare o qualcuno lo convincerà che è più conveniente smettere di farlo.
Allora quella gente come molta altra, di cento, mille Chatila, verrà avvolta dall’oblio.
Ma noi non dobbiamo temere nulla: avremo sempre qualcosa di nuovo da scrivere.
Una news dietro la quale correre. Perché la memoria, come le buone notizie, non fa notizia.