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Guerra in Afghanistan, Nyt: “Soldati locali stupravano bambini, militari Usa costretti al silenzio: era usanza culturale”

Il New York Times racconta in un reportage che gli alleati afghani usavano i minorenni come schiavi sessuali. "I vertici ci dicevano di voltarci dall'altra parte, i colpevoli non erano mai puniti", hanno detto alcuni militari americani. Non vedo, non sento e non parlo: la regola valeva anche quando gli ufficiali locali portavano le vittime nelle basi condivise con gli americani

“Di notte li sentiamo urlare, ma non ci è permesso intervenire”. L’ultima telefonata del caporale dei Marines Gregory Buckley Jr., di stanza in Afghanistan, è diretta al padre. Il militare racconta di essere turbato: gli è stato ordinato di ignorare i tanti casi di pedofilia commessi dagli ufficiali della polizia e dell’esercito afghano loro alleati. La consegna è tassativa: Se si vede un “bacha bazi”, letteralmente “giocare coi bambini”, bisogna voltarsi dall’altra parte.

A svelare uno dei lati oscuri della guerra in Afghanistan è un reportage del New York Times, che ha intervistato alcuni dei militari Usa che hanno disobbedito, e sono intervenuti per fermare gli abusi: in alcuni casi hanno subito provvedimenti disciplinari o sono stati costretti a lasciare l’esercito.

L’ordine di non ostacolare questi episodi veniva definito come un modo per non interferire in un aspetto che, anche se odioso, è radicato nella cultura locale, soprattutto tra gli uomini di potere. Il quotidiano americano ha interpellato il colonnello Brian Tribus, portavoce del comando Usa in Afghanistan: “Generalmente, le accuse di abusi sessuali su minori da parte del personale dell’esercito o della polizia afghani riguarderebbero la giustizia locale. Per il personale militare Usa non ci sarebbe nessun obbligo di denunciarli”, ha spiegato. Un’eccezione, ha concesso il colonnello, potrebbe essere fatta nel caso in cui lo stupro venisse usato come un’arma di guerra.

Questo modo di agire, o meglio, non agire, avrebbe avuto lo scopo di mantenere buoni rapporti con l’esercito e la polizia afghani, armati e addestrati dagli Usa e dagli alleati della Nato per combattere i talebani. Dall’altro lato ha certamente contribuito ad aumentare la diffidenza degli abitanti dei villaggi da cui i bambini venivano portati via.

Non vedo, non sento e non parlo: la regola valeva anche quando gli ufficiali afghani portavano i bambini nelle basi condivise con gli americani. Probabilmente anche in quella di Buckley Jr., ucciso nel 2012. Il padre del caporale, Gregory Buckley senior, è convinto che la morte di suo figlio sia legata, almeno in parte, a queste vicende: lui e altri due marines sono stati uccisi, in una base militare nel sud del paese, da un ragazzino afghano che faceva parte di un gruppo di adolescenti che vivevano all’interno della base insieme ad un comandante della polizia afghana, Sarwar Jan. Buckley senior ha avviato un’azione legale per chiedere al Pentagono di fare chiarezza sulla morte del figlio.

Jan era noto per la sua pessima reputazione. Nel 2010 due ufficiali dei Marines erano riusciti a farlo arrestare dalle autorità afghane per corruzione e pedofilia. Ma due anni dopo, Jar era di nuovo al comando di un’altra unità di polizia che operava dalla Base avanzata Delhi, la stessa del caporale Buckley. Quando Jar si trasferì all’interno della base, portò con sé un entourage di ragazzini afghani, ufficialmente da impiegare come domestici, detti “tea boys”, ma in realtà sfruttati come schiavi sessuali.

Buckley ne parlò al telefono con il padre, e i due ufficiali che nel 2010 erano riusciti a far arrestare Jar informarono immediatamente i comandanti della base Delhi della sua pericolosità. Dopo due settimane, l’omicidio di Buckley e degli altri due soldati. L’unico ufficiale Usa che venne punito fu il maggiore Jason Brezler, lo stesso che aveva fatto arrestare Jar nel 2010 e aveva poi allertato i comandanti della base Delhi sulla pericolosità del loro alleato. Brezler venne accusato di aver rivelato informazioni riservate sul conto di Jar. Quanto a Jar, sembra che abbia fatto carriera e ricopra una nuova posizione di comando nella provincia dell’Helmand.

“Mettevamo al potere gente che faceva cose peggiori di quelle fatte dai talebani. Era questo che mi dicevano gli anziani del villaggio”, ricorda Dan Quinn, ex comandante delle Forze speciali Usa nella provincia di Kunduz. Quattro anni fa Quinn ha picchiato un comandante afghano, Abdul Rahman, che teneva un ragazzino incatenato al letto del suo alloggio come schiavo sessuale: successivamente ha deciso di lasciare le forze armate. Insieme a lui c’era anche Charles Martland: l’esercito sta tentando ancora di fargli abbandonare la divisa.

Nell’estate del 2011 Quinn e Martland iniziarono a ricevere delle lamentele riguardo il comportamento della Afghan Local Police. Prima vennero a sapere di una ragazzina di 14 o 15 anni che era stata violentata: decisero quindi di informare il capo della polizia locale: “L’uomo scontò un giorno di prigione, e poi la ragazza fu costretta a sposare il suo stupratore”, ha raccontato Quinn.

In seguito un comandante afghano uccise la figlia 12enne per aver baciato un ragazzo. “Non c’erano mai ripercussioni“, ha ribadito l’ex comandante.