Ho letto con un certo stupore il libro di Sebastiano Ardita “Catania Bene”. Premetto che sono da anni legato a Sebastiano – un magistrato valoroso e onesto e una persona perbene – da stima e amicizia, per questo, come mi è capitato fare con altre persone che stimo (con gli idioti non si perde tempo), dico senza girarci a attorno quello che penso.
“Catania Bene” parte dall’ambizione di raccontare come un’idea della mafia, quella pensata incarnata dalla famiglia mafiosa di Catania, ovvero i Santapaola-Ercolano, sia oggi l’idea criminale vincente: una mafia che si inabissa, che legalizza gran parte delle sue attività, affidandosi alle terze generazioni, incensurate e magari laureate con ottimi voti in università di rango, capaci di parlare in inglese e non dissimili, anzi più intraprendenti e dinamici, da tanti imprenditori. Una mafia che ha riposto il kalashinicov e ha aperto l’iPad. E’ l’impostazione di una Cosa nostra sempre più impresa e sempre meno banda gangsteristica, attenta all’informazione e all’immagine che viene data di se. E’ Cosa nostra dopo la stagione stragista, mimetizzata, catacombale, capace di divenire addirittura essa stessa antimafia. Un modello, quello santapaoliano, che oggi è diventato “il modello” a cui riferirsi. I protagonisti di questa vicenda ovviamente non sono solo i mafiosi. Sono tanti gli attori con ruoli diversi, protagonisti e comprimari, tutti però essenziali affinché la tragedia vada in scena.
Viste le premesse ci si aspettava di trovare una narrazione puntuale, approfondita, capace di individuare tutti i protagonisti e spiegare oltre al racconto dei fatti del passato, soprattutto i meccanismi dell’oggi. Una narrazione del reale. Invece scorrendo le pagine emerge una narrazione viziata da un pesante conformismo e in alcuni casi da una visione distorta e persino manipolata degli eventi. Un ricalcare vecchi modelli di analisi, racconti consunti e purtroppo, occorre dirlo assolutamente già letti su scritti di maggiore profondità, da Massimo Caciagli a Claudio Fava a Nando Dalla Chiesa. Si ripercorre una storia – quella della Catania degli anni 80 e 90 – che abbiamo già letto e scritto più volte. Il rapporto assolutamente centrale, per una mafia che si fa mafia imprenditrice, con i pezzi forti del potere economico si riduce all’ennesima riscrittura della storia dei Cavalieri dell’Apocalisse, morti ormai da decenni. Certo ricordare fa sempre bene. Ma il presente? Quello che è accaduto dopo la caduta dei Cavalieri e dei loro referenti politici? Nessuna parola sui nuovi padroni della città. In tutto il libro non viene mai descritta la storia dell’imprenditore più potente della Sicilia, il catanese Mario Ciancio Sanfilippo, oggi imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il padrone dell’informazione e grande architetto di centinai di affari milionari, legato – sostiene la DDa di Catania – da relazioni pericolose con uomini della mafia, un uomo, che non ha saputo spiegare da dove provengano 52 milioni che la Guardia di Finanza gli ha trovato in Svizzera e che i magistrati della Dda di Catania hanno in parte sequestrato, considerandoli di provenienza oscura, ebbene questo signore, non propriamente marginale nella storia della città che si pretende raccontare, viene nominato di sfuggita solo due volte in modo marginale. Lo stesso discorso vale per Raffaele Lombardo. L’ex presidente della Regione, condannato anch’egli per concorso esterno, praticamente nel libro non esiste.
La “Catania bene” di oggi dov’è? Dove si trova? Perché è così difficile parlare del potere quando esso è attivo, quando ancora è carne viva? Perché è difficile parlare dell’”antimafia di carta”, dei leader confindustriali che, guardati a vista dalla scorta pagata dallo Stato, vanno seraficamente a cena con un imputato di mafia?
Leggendo il capitolo che riguarda la morte di Giuseppe Fava mi sono chiesto perché mai non si sia fatto minimamente cenno al pesantissimo tentativo di screditare il collaboratore Maurizio Avola, che sarà decisivo nel far finalmente luce sull’assassinio del giornalista, da parte del quotidiano La Sicilia.
E ancora perché si continua a raccontare la barzelletta dei Siciliani Giovani (ormai hanno quasi tutti superato i cinquanta e anche oltre) indicandoli come gli unici giornalisti (si fa per dire) onesti – dei quali non si ricorda una, dicasi una, inchiesta vera che abbia messo in crisi il sistema di potere che ha governato e governa Catania. Gli altri? Tutti collusi? Tutti “giornalisti impiegati”? Pagine ingenerose verso storie che l’autore conosce benissimo, che si snodano perpetuando il gioco indecente dell’isolamento nei confronti di chi, per continuare a informare e denunciare ha pagato prezzi altissimi ed è stato capace di sfidare il potere e vincere la battaglia. Un errore? Non lo so. So che se errore è stato, per evitarlo non era necessario leggere la recente relazione della Commissione antimafia su mafia e informazione.
Un libro che ho trovato intriso del conformismo di una certa “chiesa dell’antimafia”, una congrega autoreferenziale incapace storicamente di un’azione concreta. Si perpetuano così stereotipi celebrativi e non si è capace di aprire una discussione vera, onesta e civile su cosa sia oggi la mafia a Catania e in Sicilia e su cosa sia l’antimafia. “Catania Bene” poteva essere un’occasione, purtroppo è un’occasione perduta.