Lo scandalo Volkswagen con la sistematica manipolazione dei dati sulle emissioni scoperta dall’Environmental Protection Agency americano da una parte, dall’altro la possibile acquisizione della società pubblica cinese Baic di una quota significativa di Daimler sono pagine di storia del settore automotive. Perché la Germania sembra trovarsi improvvisamente “fragile” in uno dei suoi settori più rappresentativi, quello dell’auto, nel cui segmento premium i marchi tedeschi sono leader indiscussi a livello planetario. Una debolezza apparentemente in contrasto con la dimostrazione di forza che, proprio in questi giorni, è in mostra al Salone di Francoforte IAA (nella foto, la cancellieri Angela Merkel con i vertici VW).
Mentre ancora ci si stupisce che la Volkswagen abbia potuto “barare” così spudoratamente, in Germania il ministro dei trasporti Alexander Dobrindt ha chiesto alla KBA (la motorizzazione) di avviare una verifica sui modelli diesel di Volkswagen ottenendo anche l’approvazione di Martin Winterkorn, il Ceo del gruppo Volkswagen e fino a qualche anno numero uno del brand più venduto. Il problema è che Volkswagen “taroccava” i risultati e ciò nonostante non riusciva a vendere abbastanza. Pure nei primi mesi del 2015 ha contabilizzato un’altra flessione, -2,8%. Poiché anche l’Audi A3 è coinvolta nell’inchiesta dell’EPA c’è da chiedersi quanto grave sarà il danno di immagine anche per la casa dei Quattro Anelli, fiore all’occhiello tecnologica e “cassaforte” (assieme a Porsche) del gruppo.
I fatti contestati dall’Epa sono stati ammessi dal costruttore tedesco e non sono un “incidente di percorso”: riguardano quasi mezzo milione di auto di 5 diversi modelli prodotti in 6 anni, fra il 2009 ed il 2015. Non solo l’industria dell’auto, ma la Germania intera ha costruito la propria fortuna sulla serietà e sulla credibilità. Che, per la verità, già la Deutsche Bank aveva messo in discussione con il coinvolgimento nei maggiori scandali degli ultimi anni, incluso quello sulla manipolazione dei tassi di riferimento (Libor) per i quali ha versato un’ammenda di 2,5 miliardi di dollari. L’Autorithy per la concorrenza della Germania ha sanzionato diversi comportamenti scorretti da parte di numerose società tedesche, così come quella europea. Ma Deutsche Bank e Volkswagen sono, più di altre grandi aziende, due simboli del paese.
Volkswagen è un brand “popolare”, è indubbiamente uno dei simboli della Germania che funziona: che assicura lavoro (quasi 585.000 addetti nel mondo e oltre 100 siti produttivi come gruppo), che è affidabile, che è credibile. Invece, il complesso software messo a punto per consentire il rispetto dei limiti delle emissioni solo in fase di test, scoperto per caso da parte di un gruppo di ricercatori scrupolosi, consegna alle cronache una Volkswagen che non rispecchia l’immagine di un’azienda rigorosa, trasparente e corretta quale tutti consideravano Volkswagen, almeno fino a venerdì scorso.
L’export è fondamentale per Volkswagen e per la Germania. Nel 2014, il paese ha superato il record storico del 2012 contabilizzando all’estero volumi pari a 1.133,6 miliardi di euro, il 3,7% in più rispetto all’anno precedente. Con oltre 202 miliardi, quello dell’auto, ricambi inclusi, è il comparto che incide maggiormente. Nel 2015 le cose sono andate anche meglio con un ulteriore rafforzamento delle esportazioni, grazie alle quali la Germania prospera e i costruttori inanellano record su record (Porsche, BMW, Daimler).
E con Daimler – quella di Mercedes-Benz e Smart – il cui maggior azionista singolo sarà molto probabilmente cinese, la Germania saluta anche quella sorta di “supremazia” territoriale. Volkswagen e BMW sono controllate da dinastie, ma il costruttore della stella a tre punte sta per abbracciare la società di stato cinese Baic proprio per avere un partner strategico forte e di lunga durata che gli consenta di mettersi al riparo da azzardate operazioni finanziarie. Daimler cederà non soltanto un po’ di sovranità “tedesca”, ma trasferirà di fatto il know how tecnologico da un continente all’altro.
In qualche modo, l’industria germanica – che negli scorsi mesi aveva denunciato le pesanti perdite dovute a spionaggio e concorrenza sleale – si scopre non solo imperfetta, ma anche vulnerabile. E nemmeno così innovativa. Secondo l’edizione 2015 del Global Innovation Index redatto dalla Cornell University, da INSEAD e dal World Intellectual Property Organization (WIPO) che analizza 141 paesi, la Germania al dodicesimo posto assoluto di una graduatoria comandata da Svizzera, Regno Unito, Svezia, Paesi Bassi e Stati Uniti (il Giappone è 19°, la Francia 21°). E il paradosso è che il paese governato da Angela Merkel è al primo posto per numero di brevetti rispetto al Pil. Evidentemente gli affari sulle idee li fanno poi altri.