Il libro in questione è, come molto ben riportato nel blog di Grana, quello che, nel corso d’un breve e molto pubblicizzato incontro non protocollare all’Avana, Jorge Bergoglio ha regalato al riconosciuto padre della rivoluzione cubana. Trattasi, come riferiscono tutte le cronache, d’una serie di saggi – per l’occasione accompagnati da un paio di Cd con l’audio di alcuni sermoni – a suo tempo scritti da padre Amado Llorente, il gesuita (gesuita come Jorge Bergoglio) che fu insegnante-tutor di Fidel quando, tra il 1944 ed il 1945, giusto prima di entrare all’Università, il futuro ‘líder máximo’ studiò nel prestigioso Colegio de Belén dell’Avana. Non tutti sembrano però convinti che quel dono sia davvero stato, per restare alla metafora dantesca, un ‘messaggero d’amore’. E qualcuno – è questo, ad esempio, il caso di Austen Ivereigh, autore di ‘The Great Reformer: Francis and the Making of a Radical Pope’ – ha addirittura avanzato l’ipotesi che quel libro in realtà contenesse un molto sottile ma anche, in ultima analisi, alquanto perentorio invito. Scrive infatti Ivereigh su suo account Twitter: ‘…in altre parole, quel libro e quei Cd, potrebbero essere un modo d’aiutare El Jefe a riconciliarsi con il suo passato…’. Ovvero, a fare qualcosa che Fidel non ha mai fatto e, presumibilmente, mai farà negli anni che gli restano da vivere: pentirsi, cercare – nel più cristiano senso del termine – la penitenza ed il perdono.
Si tratta, per l’appunto, soltanto di un’ipotesi, basata però su alcuni piuttosto solidi dati di fatto. Il più rilevante dei quali è questo: la ‘assoluzione’ di Fidel Castro – conseguenza per l’appunto del suo pentimento – era proprio quello che Amado Llorente aveva affermato di ‘desiderare sopra ogni cosa’ in un’intervista rilasciata all’agenzia Efe nel 2007, tre anni appena prima di morire. Padre Llorente era stato – come gran parte del clero cubano, perlopiù di origine spagnola e di fede franchista – espulso da Cuba nel 1961, due anni appena dopo il trionfo della rivoluzione, e s’era, come gran parte dell’esilio, stabilito a Miami, città nella quale l’intolleranza dell’ala più dura degli anticastristi, per molti versi speculare a quella della rivoluzione dalla quale erano fuggiti, mai gli aveva perdonato il suo non rinnegato rapporto d’amicizia con ‘el tirano’. Ed era stato proprio da questo strano limbo – o da questa posizione di predicatore nel deserto – che il gesuita aveva, nel 2007, lanciato quel suo ultimo messaggio via Efe. Dovesse Fidel chiamarmi, aveva in sostanza detto, io partirei il giorno stesso per Cuba. Ed arrivato all’Avana lo abbraccerei, ricordando tutte le belle ore trascorse insieme. Ma poi lo metterei di fronte alla ‘Verità’ e gli chiederei di pentirsi, di fronte a Dio e di fronte agli uomini, di peccati che ‘non furono solo personali’.
È dunque questo – pentiti e sarai assolto – quel che papa Francesco ha voluto dire a Fidel regalandogli il libro? Forse sì, o forse no. E, se sì, va da sé che – essendosi Fidel, notoriamente, già fatto assolvere dalla Storia – si tratta d’un messaggio destinato a cadere nel vuoto. Un fatto comunque resta: il regalo papale ha – probabilmente in modo involontario – riaperto un capitolo della storia giovanile di Fidel che, normalmente assai poco frequentato, offre un diverso e più preciso angolo visuale sull’antico enigma della formazione politica del ‘comandante en jefe’. Un angolo, se vogliamo, più in sintonia con le esperienze – tutte di radici fasciste – di altri leader populisti latinoamericani, da Juan Domingo Perón (che fu, a suo tempo, ispiratore dello stesso Bergoglio) a Getulio Vargas.
Nella chilometrica intervista-testamento rilasciata ad Ignacio Ramonet – pubblicata nel 2006, sotto il titolo ‘Fidel Castro, biografia a dos voces’ – Fidel non dedica che poche parole agli anni trascorsi nel Colegio di Belén. E di padre Llorente non sembra ricordare, in un paio di righe, che qualche divertente gita in montagna. Non così il gesuita che, di quel tratto della vita di Fidel, aveva – come molti dei compagni di corso – conservato memorie assai meno ‘neutre’. Quella, ad esempio d’un ancora imberbe ma molto convinto ammiratore di Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange. ‘Sono innumerevoli le volte – ha rammentato Llorente in un’intervista – che Fidel ed io abbiamo cantato insieme, con il braccio teso, De cara al sol (l’inno, per l’appunto, della Falange franchista)’…
Fidel aveva, allora, meno di 18 anni. Troppo pochi, ovviamente, per incollargli addosso etichette di sorta. Ed è certo – come di lui scrisse il giornalista del New York Times, Herbert Matthews, il primo che lo intervistò nella Sierra Maestra – che il ‘comandante en jefe’ ha da allora cambiato idee ed ideologie con lo stesso criterio e con la stessa facilità con cui gli altri cambiano vestito. L’importante, scrisse Matthews, era che quelle idee stessero bene addosso a lui ed al suo potere…Il che ci riporta a quella che, la di là dello scambio di doni, è probabilmente stata la più importante delle frasi pronunciate dal papa in questa sua visita cubana: è tempo di cominciare a servire le persone, non le ideologie…Forse Francesco avrebbe dovuto aggiungere: …e non i capi supremi.