C’è un fatto, che spiega bene l’atteggiamento di Papa Francesco verso gli Stati Uniti. Bergoglio non è mai stato negli Usa. Quando l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, visitò il Vaticano, due anni fa, il papa tirò fuori un atlante e gli chiese di spiegargli la mappa culturale e spirituale degli Stati Uniti. Che cosa rappresentano le diverse diocesi del Paese, dove i cattolici sono più forti, quali sono i problemi più urgenti della comunità cattolica statunitense. Come spiegò poi Dolan alla stampa, Bergoglio sembrava “avido di informazioni”. O, come fecero notare alcuni commentatori, Bergoglio sembrava a corto di notizie sugli Stati Uniti.
Quando l’aereo del papa toccherà l’aeroporto di Washington, martedì sera, sarà dunque la prima volta di Bergoglio in 78 anni; in tutta la sua esistenza. La visita negli Usa è di altissimo livello. Papa Francesco incontrerà Barack Obama e parlerà anche davanti al Congresso in seduta comune. Sarà quindi a New York, per una grande messa al Madison Square Garden, poi presenzierà al World Meeting of Families di Filadelfia. “Il papa è certo che verrà accolto nel migliore dei modi – ha confessato ancora il cardinale Dolan lo scorso maggio – ma è comunque un po’ nervoso”. E il “nervosismo”, sembra, ha a che fare proprio con la distanza – umana, esistenziale, ancor prima che culturale – che lo divide dagli Stati Uniti.
Papa Wojtyla e Benedetto XVI potevano non essere particolarmente vicini a cose, temi, uomini degli Stati Uniti, ma conoscevano il Paese, dove avevano viaggiato prima di diventare papi. Gli Stati Uniti, del resto, sono il quarto Paese al mondo per presenza dei cattolici. Bergoglio, invece, ha sempre preferito tenersene lontano. Come spiega chi lo conosce bene – per esempio Richard Ryscavage, un gesuita che dirige il “Center for Faith and Public Life” della Fairfield University – è la formazione e l’identità culturale di papa Francesco che poco hanno a che fare con l’America: “Le sue idee vanno viste nel contesto di una cultura latino-americana che considera gli Stati Uniti un problema, non una forza positiva nel mondo”, ha spiegato Ryscavage.
Gesuita con radici nel Piemonte povero dell’immigrazione, prete a Buenos Aires negli anni della diffusione della teologia della liberazione (che lui non ha mai abbracciato, ma che comunque ha costituito un orizzonte culturale comune a molti preti latino-americani), poco a suo agio con l’inglese (che invece Woytila e Raztinger parlavano perfettamente), Bergoglio non potrebbe essere più lontano dal Sogno Americano. “Penso che ciò che critica degli Stati Uniti sia l’assoluta libertà e autonomia del mercato – ha spiegato ai giornali un altro prelato che lo conosce bene, l’argentino e gesuita Juan Carlos Scannone – noi tutti ammiriamo la democrazia americana e il benessere dei suoi cittadini; quello che non piace a Bergoglio è il consumismo, una società unicamente rivolta al consumo”.
L’uomo che da arcivescovo di Buenos Aires e poi da pontefice ha fatto della lotta alla povertà e della difesa dei più deboli il centro del suo messaggio pastorale – anche con gesti clamorosi e attentamente curati dal punto di vista scenografico – non ha così nulla che possa accostarlo al Paese che ha fatto del culto dell’individuo e delle libertà uno dei pilastri della sua organizzazione sociale; il Paese dove il consumo è indice di status e di promozione sociale; il Paese che nell’ultimo secolo ha messo in atto una politica estera particolarmente aggressiva verso il Sud del mondo, e che continua a percepirsi come il centro e il motore del mondo. Tra l’altro – ulteriore elemento di distanza – sin dall’inizio del suo pontificato Bergoglio ha messo l’accento sulle “periferie”, da intendersi non soltanto nel senso delle comunità più povere e svantaggiate, ma anche in quello geografico. Prima degli Stati Uniti, il papa ha visitato Lampedusa, in Italia, e poi il Brasile, Israele, la Giordania e i Territori Occupati della Palestina, le Filippine, lo Sri Lanka, la Bolivia, l’Ecuador, il Paraguay. Per rendere ancora più chiaro come la pensa, prima della visita a Washington e New York ha piazzato una sosta a Cuba.
Ha ragione dunque a sentirsi “nervoso”, papa Bergoglio, prima dell’arrivo negli Stati Uniti. Tra il suo appello terzomondista, anti-individualista, anti-consumista e il centro del capitalismo mondiale c’è un abisso. Il “nervosismo”, d’altra parte, non è a senso unico. Nonostante i media americani siano pieni di analisi e notizie sulla visita del Papa, nonostante il fatto che l’agenda papale di Francesco negli Stati Uniti sia d’altissimo livello – nessun papa ha mai parlato davanti al Congresso Usa – e nonostante le città americane, soprattutto New York, siano coperte di murales che danno il benvenuto al Pontefice, le voci critiche non sono mancate. Hanno cominciato gli atei e gli agnostici della Freedom from Religion Foundation” a lamentarsi per l’accoglienza troppo calorosa tributata da New York – e per le spese troppo alte sostenute dai suoi contribuenti. Ci si sono messi poi i gruppi gay e lesbici, che hanno appena celebrato la vittoria sui matrimoni omosessuali e che non giudicano con particolare entusiasmo il Forum delle Famiglie di Filadelfia che li tiene clamorosamente fuori. A Filadelfia, gli unici a parlare di tematiche gay saranno Ron Belgau e sua madre. Belgau è un cattolico gay che, in sintonia con l’insegnamento della Chiesa, ha fatto esplicita professione di castità.
I problemi per il Papa in terra americana potrebbero considerarsi di non eccessivo rilievo politico, se dovessero limitarsi a due comunità, atei e omosessuali, non esattamente in sintonia con l’insegnamento della Chiesa. In realtà non è così. La visita del Papa pone e porrà sicuramente problemi di non poco conto anche al mondo politico di Washington. Le maggiori difficoltà sorgono sicuramente in campo repubblicano. L’insegnamento di Bergoglio è infatti in contrasto con praticamente tutto quello per cui i repubblicani si battono: dal capitalismo senza grandi limiti e freni (che Bergoglio ha definito “letame del diavolo”) ai cambiamenti climatici a una politica estera aggressiva e interventista. Non è un caso che un deputato repubblicano e cattolico, Paul Gosar abbia annunciato che boicotterà il discorso del Pontefice. Su un solo punto le idee del Papa e quelle dei repubblicani coincidono: l’aborto e i diritti riproduttivi. Il tema, con
ogni probabilità, se sollevato, dispiacerà a gran parte dei democratici.
Il fatto è, come ha spiegato su Newsweek Brian Porter-Szucs, professore di storia alla University of Michigan, che la dottrina della Chiesa differisce in modo totale, assoluto, dalla tradizione liberale su cui nascono gli Stati Uniti. Liberalismo, in America, è insieme difesa delle libertà individuali e del capitalismo di mercato. La Chiesa, sia pure con tutti i tentativi di riconciliarsi con la modernità e il progresso, resta in fondo legata a quella sconfessione del liberalismo individuale e di mercato che Papa Pio IX fece nel 1864. Francesco, papa “progressista, secondo alcuni, ben radicato nella teologia più “classica” secondo altri, è comunque l’espressione dell’antitesi al pensiero liberale che ha creato e continua a ricreare gli Stati Uniti. La contraddizione, oltre che nelle parole e nei fatti, non potrebbe essere più evidente in questi giorni in diversi negozi di Washington e New York. La statuetta celebrativa per la visita del Papa viene infatti venduta accanto ai gadget della campagna di Donald Trump, un miliardario per cui chi non ha successo – in altre parole, chi non riesce a fare soldi – è “soltanto uno sfigato”.