Per uno di quei bizzarri accostamenti che ogni tanto la storia d’Italia è in grado di regalarci, a un certo punto, l’orrore della stagione delle stragi mafiose del ‘92 ha incrociato il cammino della riforma del Senato. Che c’entrano Capaci, via d’Amelio, e gli emendamenti all’articolo 2? Nulla, per carità. Ma i toni con cui avanza la modifica della Costituzione devono essere davvero troppo accesi se ieri, ascoltando Matteo Renzi, a Pietro Grasso sono venuti in mente gli anni bui da procuratore a Palermo, quando Cosa Nostra, per lui, aveva pronto il tritolo.
Non è un paragone che affida al dominio pubblico. Piuttosto una confessione a cui si lascia andare con i suoi collaboratori, estrema ratio per spiegare quanto è intenzionato a fare da scudo alle manovre in corso su palazzo Madama.
Già, perchè mentre si avvicina il mercoledì – domani – in cui il presidente del Senato avrà sul tavolo gli emendamenti di cui dovrà valutare l’ammissibilità, al Nazareno, sede del partito democratico, Matteo Renzi ha deciso di mostrare la faccia feroce. Minaccia, il premier: “Se il presidente dovesse aprire a modifiche all’art.2 si dovrebbero convocare Camera e Senato perché saremmo davanti ad un fatto inedito”. È a quel punto che Grasso, forte della sua storia, confida: “Queste non sono né pressioni né minacce, almeno per me. Io ne ho vissute ben altre e non hanno mai influenzato il mio comportamento, lo sanno bene tutti”.
Non ci sta, Grasso, a mandare giù quei tre o quattro secondi di silenzio – un’infinità nel format comunicativo inventato con la scusa delle riunioni di partito trasparenti – che Renzi fa trascorrere prima di annunciare il suo aut-aut. Sbotta, il presidente del Senato: “Nemmeno in caso di guerra Camera e Senato vengono convocate in seduta comune!”. Vorrebbe replicare, poi segue più miti consigli: “Vedrai che arriva la smentita”. Arriva, in effetti. Renzi vede il fiume che già tracima sulle agenzie (il primo è Nichi Vendola: “Minacce alla seconda carica dello Stato”) e decide di correggere il tiro. Non ci siamo capiti, è il succo: io parlavo della convocazione dei gruppi parlamentari del Pd. Però non basta: “Un presidente del Consiglio le parole le deve misurare prima, non dopo. Le istituzioni vanno rispettate”, reagisce Grasso.
Il punto è che ormai la contrapposizione tra i due è salita ad un livello superiore. A palazzo Chigi sono convinti che Grasso stia approfittando dei suoi poteri per mettere i bastoni tra le ruote a Renzi e far saltare il “cronoprogramma” per cui la riforma sarà licenziata entro il 15 ottobre. Grasso non accetta di farsi mettere fretta né di sentir parlare di “inediti”, visto che di precedenti in materia ce ne sono in un senso o nell’altro. E se qualcuno se lo fosse dimenticato, ieri, gli ha ricordato da dove viene.
Da Il Fatto Quotidiano del 22 settembre 2015