L’impianto è sempre lo stesso: una strada che si fa racconto e teatro, sedie e tavoli attorno ad una narrazione che, leggera e puntuale, non rinnega la sua prerogativa di entrare nella carne del paese, raccontandone il presente con un amo ben ancorato al passato. Si chiama comunità, un sentire cittadino unitario. E’ questa la cultura di Anghiari arroccata sulle sue pietre centenarie ma con lo sguardo che va ben oltre la vallata dove il vento fresco arriva a scompaginare. Struttura da una parte simile al Teatro Povero di Monticchiello, con gli abitanti che si fanno attori per una decina di repliche, diverso perché qui si cena durante la rappresentazione, si fa uso del canto e si punta sul brillante invece che dell’autodramma. Non si piange addosso Anghiari ma sorride.
Come la sua “Tovaglia a quadri” (quella classica e spessa e vagamente tra l’arancione e il rosato di Busatti, prodotto tipico di questa terra ed esportato), appunto, che non copre, non cela né nasconde ma mette tutti comodi attorno ai piatti della tradizione (bringoli al sugo finto e spezzatino e crostini e cantuccini) come attorno ad un focolare dove riprendere le storie lasciate dalla scorsa edizione, come riallacciare un filo, un legame, un trasporto, una tela di Penelope. Il paese va avanti e, anche grazie alla Tovaglia, cresce. Se ne sente la consapevolezza e la responsabilità, quel “play” tutto inglese che qui si assomma tra il gioco e il recitare.
Dal ’96 ci ha parlato e portato dentro piccole grandi storie, dalle miniere etrusche al Caravaggio, da Leonardo e l’eclisse alle prostitute, dai campi d’internamento al brigantaggio, dal manicomio ai tessuti, dall’emigrazione in Argentina alla svendita dell’acqua pubblica, dagli artigiani alla crisi della sanità, dall’economia del carbone agli animali da cortile, partendo dal locale fino ad arrivare al nazionale.
Si recita tra i tavoli come affacciati alle finestre, dalle porte, dalle cantine. Un imbonitore, che sembra il pifferaio magico o il domatore dei ciuchini in Pinocchio, vuole convincere, con fare da Grande Fratello, da reality, da quizzone e telepremio, gli abitanti a lasciare la vecchia strada per incolonnarsi nella nuova, perdere le certezze, le tradizioni e uniformarsi sul grande raccordo anulare della globalizzazione appiattente. L’emigrazione italiana, quella per la fame di un tempo e quella per la scoperta e curiosità di oggi (non sempre è la tanto paventata “fuga dei cervelli”), poi fa rima con l’emigrazione degli altri nelle nostre terre in un melting pot a mantecarsi, a mescolarsi.
Molti i sassi lanciati nello stagno a decantare e a fare rumore, dall’accoglienza dei profughi allo spopolamento dei piccoli centri (come lo stesso Anghiari passato in cinquant’anni da 8.500 abitanti ai 3.000 di oggi), dalla “Maremma amara” cantata come bandiera di una terra natia che ci fa male ed è matrigna fino alle ruspe leghiste e ai rom. E’ un disagio la ricerca del lavoro, come è un disagio il vivere per lavorare. Il paese di Anghiari ci dice di aprire le finestre e di considerare la bellezza diffusa delle nostre città, grandi o piccole che siano, e di respirare a fondo prima di sentirci sconfitti, rassegnati e demoralizzati e depressi. La vita passa dalla buona tavola, dalle tradizioni, dai legami. In fondo siamo fili della medesima coperta, chiamala tovaglia se vuoi. Da soli saremmo spazzati via.
Visto ad Anghiari il 12 agosto 2015