Ho l’impressione che siano pochi i preti italiani che si attengono fedelmente alla norma celibataria. Un buon numero di loro, qualcuno dice addirittura i tre quarti del totale, è omosessuale e usa il celibato come uno splendido alibi per non dover fornire giustificazioni del desiderio di non avere relazioni sentimentali con le donne e di non sposarsi. Tra gli eterosessuali ve ne sono molti che hanno relazioni regolari e durature, anche con figli. Molti altri hanno solo relazioni occasionali, più o meno numerose. Una vita di assoluta castità non è comunque, anche per quei pochi under settanta che la praticano, sintomo di serenità spirituale o di pace interiore. Perché spesso dà luogo a fenomeni patologici, come l’alcolismo (molto diffuso) o altre forme di dipendenza, e si accompagna ad uno stato depressivo e di profonda infelicità.
In ogni caso, una condotta sessuale attiva può essere vissuta dai preti in modi molto diversi: talvolta con terrificanti sensi di colpa, talaltra con la serenità di chi invece ha compreso di aver diritto a una vita affettiva autonoma dalle imposizioni dell’istituzione. E questo non dipende dagli orientamenti sessuali. Ho intervistato qualche tempo fa un prete gay che mi rivelò il desiderio di vivere il suo amore alla luce del sole. Oggi ha lasciato anche lui. L’idea che il celibato sia lo strumento principale per avere dei presbiteri completamente devoti alla loro comunità e che questa loro devozione soddisfi i bisogni affettivi dei sacerdoti, che li gratifichi come li gratificherebbe l’amore di una compagna o di un compagno e di una famiglia, è una menzogna assoluta.
Il celibato è in realtà la “regola di ingaggio” che consente alla Chiesa di disporre di funzionari a tempo pieno ad essa pienamente dedicati e ricattabili. Semplificando all’estremo, è come se l’istituzione dicesse al suo funzionario: “Tu sapevi quando hai accettato l’ingaggio che c’era questa regola. La puoi violare, ma ti sentirai in colpa e sarai comunque costretto a nasconderti. Perché, quando non rispetti il celibato, sentirai di aver tradito la fiducia del tuo gregge, al quale noi istituzione (con il tuo concorso!) abbiamo insegnato che tu devi essere puro e casto. Noi ti perdoneremo quando ignorerai il divieto. E ti copriremo anche se serve, ad esempio trasferendoti in un altro luogo se hai una donna che ti insegue o mandandoti in clinica invece di denunciarti se hai commesso qualche crimine legato alla sessualità.”
Il celibato diventa la premessa della sacralizzazione della figura asessuata del prete, la condizione della sua superiorità rispetto agli altri fedeli, il segno più tangibile che egli è più puro di loro e che la sua vita coincide con il suo ruolo pubblico. In questa metamorfosi egli si disumanizza, riducendosi a mero simbolo, privato del diritto ad avere una vita privata. Per qualche prete questo regime psichico è la premessa di un narcisismo incontenibile, della convinzione di essere più simile a Gesù che ai propri simili. E di avere un naturale diritto a comandare. Per altri è una terribile camicia di forza che spinge verso il dolore e la morte interiore.
Versione ridotta dell’articolo pubblicato su il Fatto Quotidiano del 13 settembre 2015
Di seguito pubblico la lettera di una lettrice:
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