A mettere in fila le cose vien pure da dargli ragione: certi politici è del tutto inutile intercettarli. Perché tra una telefonata e l’altra potrebbero aver cambiato idea. E’ il caso della presidente del Friuli, Debora Serracchiani (Pd), che incidentalmente è anche vice segretario del Pd, il partito che ha deciso di realizzare in proprio quel che Berlusconi ha evocato per vent’anni: la stretta sulle intercettazioni. C’è un intero pezzo del Paese, a quanto pare, che si è convertito alla causa.

La Serracchiani è partita da lontano. Nel 2011 era un’eurodeputata e la sua idea in proposito era netta: “Sulle intercettazioni non possiamo andare contro la Corte di Giustizia europea che pone il diritto di cronaca prima di tutto anche prima del diritto alla privacy dei politici”, scriveva sulla sua bacheca di Facebook. E poi ci andava giù dura sugli politici-imbavagliatori : “A nessuno il dottore ha ordinato di fare politica e chi la fa deve dare l’esempio. Il politico rappresenta le istituzioni e quindi non esistono suoi comportamenti privati che non incidano sulla credibilità pubblica”. Mancava solo l’applauso, ma 348 “like” sono arrivati.

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Poi è arrivata però la folgorazione sulla via del telefono. L’altra Debora fa capolino tre anni dopo all’Expo, in occasione dell’Assemblea nazionale del partito, dove afferma: “Sulle intercettazioni servono regole chiare”.

Sul Messaggero precisa: “Va trovato un equilibrio su quello che viene pubblicato a tutela della privacy e di persone che non sono indagate”. Ma come, il diritto di cronaca non veniva prima del diritto alla privacy? E non doveva valere ancor di più per il politico e la credibilità pubblica? Onorevole, che cosa le è successo? Tre cose soltanto, a ben vedere. E’ tornata in Italia per mettersi alla guida di una regione, evvabbé. Ha assunto la seconda carica di un partito, fuochino. Quel partito, nel frattempo, è finito più e più volte al centro di intercettazioni imbarazzanti per la “credibilità pubblica”(copyright Serracchiani): fuoco?

Ripercorriamole, andando a ritroso: quelle tra Renzi-Adinolfi che confabulano sulla caduta di Letta, il sottosegretario Claudio De Vincenzi e i dirigenti ministeriali che auspicano “una legge porcata per Tirreno Power”, Francesco Simone e il commerciale della Cpl Concordia che compravano il vino a Massimo D’Alema perché “Mette le mani nella merda e ci ha dato delle cose”. Maurizio Lupi e il Rolex per il figlio che gli costerà la poltrona. E altre ancora. Non si saprà mai, forse, per quali telefonate scatta la scintilla che altera le valvole della coerenza e innesca la scissione dei politici da se stessi. Ma la reazione chimica è contagiosa, a catena.

Tra i ravveduti spicca così lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Solo cinque anni fa, da responsabile giustizia del Pd, tuonava contro analogo ddl che veniva presentato dal governo Berlusconi. “La maggioranza lo ritiri”, ammoniva a Montecitorio nell’estate 2010, quando Repubblica usciva a pagina bianca contro la “legge bavaglio”. E perché mai? “Perché l’impostazione del testo è sbagliata: con la scusa della privacy, che oltretutto non viene garantita, punta a bloccare la libertà di informazione e la capacità dello Stato di condurre indagini contro i reati gravi”. Sante parole, quanta saggezza. Oggi però si sentono dire proprio le stesse cose, parola per parola. Ma il ministro proponente – stavolta – è lui.

Schermata 2015-09-24 alle 11.40.40Tacciono, per contro, quelli che erano sempre pronti a ululare quando a provarci erano gli altri. Pronti a scattare al più piccolo segnale di “legge bavaglio”. Nel 2007-2009 contro il Ddl Mastella, nel 2009- 2011 contro il ddl Alfano. Entrambi contestati e azzoppati a suon di emendamenti e proteste in aula, sopratutto del centro sinistra. L’ultima fiammata è arrivata durante la breve coabitazione Pd-Pdl, in seno al governo Letta. I berlusconiani, di punto in bianco, presentano una proposta restrittiva a firma dell’allora viceministro Enrico Costa (Pdl). Apriti cielo, quasi cade il Governo: Rosy Bindi (“Tempismo sospetto”), Roberto Speranza (“Non sono la priorità”), Paola Picierno (“Paese ha altre priorità”), Ivan Scalfarotto (“Non sono emergenza voteremo no”), Piero Grasso (“Non si toccano”). Per evitare la rottura, Letta ci mette una pietra sopra: “Non era nel programma”. Dopo due anni di silenzio, incredibilmente, il viceministro contro cui si erano scagliati tutti occupa la stessa poltrona nel governo Renzi, perché ha cambiato casacca lasciando il Pdl per l’Ncd. E tanto basta. E lui ora ricambia: quando legge il testo delega dell’esecutivo a trazione Pd, solennemente, afferma: “Bene. E’ equilibrato”. Amen. Ma dove sono finiti tutti? Nessuno protesta più? Si sono persi tutti per strada?

Anche l’ex ministro e oggi capogruppo FI a Montecitorio, Renato Brunetta, sa cambiare idea. Spicca nel gruppo di coloro che percorrono al contrario il sentiero del ravvedimento: a morte le intercettazioni, viva le intercettazioni. Per lungo tempo le ha definite, in ordine: carta straccia, un’aberrazione, uno spreco immane di risorse pubbliche. Ma lo erano soprattutto quando al telefono c’era l’amico Silvio Berlusconi. Quelle che riguardano Renzi-Adinolfi? Quelle no, sono rilevantissime e anzi benedette: offrono un tale contributo di democrazia e verità da rendere necessaria “una Commissione d’inchiesta su come Renzi ha preso il potere”. E’ il potere delle intercettazioni: fanno cambiare idea ai politici, a seconda che al telefono ci siano gli amici o i nemici.

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