Il colpo di genio di Papa Francesco, acclamato negli Usa come una vera rockstar, è arrivato puntuale. Pedofilia, aborto, eutanasia e immigrati. Sono tutti i temi caldi che i commentatori americani attendevano da Bergoglio e sui quali si erano divisi nelle settimane della vigilia del viaggio cercando di tirare la talare bianca del Pontefice dalla parte dei repubblicani o dei democratici. Ma hanno sbagliato i tempi. Molti osservatori, infatti, credevano che Francesco sarebbe andato giù duro nel discorso alla Casa Bianca, intervenendo a gamba tesa nelle prime battute della campagna elettorale per le elezioni presidenziali. Non è il Bergoglio style, ma soprattutto non è lo stile della collaudatissima diplomazia vaticana, maestra e protagonista della Ostpolitik, ossia della politica di cauta apertura verso i Paesi comunisti dell’Europa dell’Est da cui proveniva Karol Wojtyla.
Francesco non si è censurato e non ha censurato i cosiddetti temi sensibili o valori non negoziabili, espressioni entrambe odiate e respinte dal Papa latinoamericano. Anzi, Bergoglio ha ribadito punto per punto con grande chiarezza e fermezza la dottrina della Chiesa cattolica e lo ha fatto in quello che, al momento, è il discorso più bello e più ricco del suo viaggio a Cuba e negli Usa, il decimo del suo pontificato. Francesco, infatti, ne ha parlato “a casa sua”, con i 400 vescovi statunitensi nella cattedrale di San Matteo di Washington, dove la clac su pedofilia, aborto, eutanasia e immigrati era più che scontata, anche perché quelle parole dall’episcopato locale erano attese da tempo.
Il Papa non ha voluto lasciare soli i vescovi americani nelle loro difficili battaglie. Durante le elezioni presidenziali del 2012 l’allora presidente dei presuli Usa, il cardinale di New York, Timothy Michael Dolan, era sceso apertamente in campagna elettorale contro il secondo mandato di quel Barack Obama che ha definito Bergoglio “il Papa della speranza”. Dolan era andato perfino a “benedire” la convention repubblicana in nome della lotta all’aborto. Un gesto che, dopo le dimissioni di Benedetto XVI l’11 febbraio 2013 e alla vigilia dell’apertura di un imprevisto conclave, aveva suscitato grande ammirazione nella frangia di porporati legati a Camillo Ruini che avevano guardato all’arcivescovo della Grande Mela come a un possibile successore di Ratzinger.
Francesco non ha rimproverato i vescovi Usa per le loro battaglie sui temi sensibili. Anzi, li ha benedetti e incoraggiati su questa strada con parole inequivocabili. “Questi aspetti irrinunciabili della missione della Chiesa appartengono al nucleo di quanto ci è stato trasmesso dal Signore. Abbiamo perciò il dovere di custodirli e comunicarli, anche quando la mentalità del tempo si rende impermeabile e ostile a tale messaggio. Vi incoraggio – ha aggiunto Bergoglio – a offrire, con gli strumenti e la creatività dell’amore e con l’umiltà della verità, tale testimonianza. Essa ha bisogno non soltanto di proclami e annunci esterni, ma anche di conquistare spazio nel cuore degli uomini e nella coscienza della società”. Per il Papa, infatti, “non è lecito evadere da tali questioni o metterle a tacere”.
Il più grande mea culpa è stato quello sulla pedofilia, deflagrata in modo impressionate nella diocesi di Boston nel 2002 portando alle dimissioni del cardinale Bernard Francis Law, ritenuto dal Vaticano incapace di gestire la vicenda. Non a caso il suo successore, il porporato cappuccino Sean Patrick O’Malley, che Bergoglio avrebbe visto bene al suo posto come Papa, è stato chiamato da Francesco a presiedere la Pontificia Commissione per la tutela dei minori. Un dicastero creato da Francesco “affinché – come ha detto lui stesso ai vescovi Usa – tali crimini non si ripetano mai più”. È questa la vera sfida su cui si gioca la credibilità della Chiesa cattolica nel futuro, non solo in America ma nel mondo intero.